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Il SW, lo Stato e l’Esportazione in USA delle Tasse dei Cittadini venerdì 1 Maggio 2020

Posted by andy in FLOSS, Information Security, Miglioramento, Pubblica Amministrazione, tecnologia.
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Premessa

Penso che siano pochi (sempre che esistano!) i paesi in cui tutti i contribuenti siano felici di pagare le tasse nella misura in cui le pagano: sorgono sempre dubbi sulle capacità dello Stato di spendere al meglio le risorse raccolte.

Con questo mio pensiero provo a sollevare anch’io qualche dubbio, proponendo naturalmente anche una soluzione (mai lamentarsi se non si ha qualcosa di meglio da proporre!).

Mi concentrerò in questo post su come vengano spesi i soldi per l’acquisto di software commerciale da parte della PA, suggerendo delle ipotesi per impiegare meglio almeno parte di tali fondi.

Una stima della spesa per il SW da parte della PA

Prendiamo il tema degli acquisiti di software commerciale da parte della Pubblica Amministrazione, dove la parte dei leoni la fanno sempre i soliti grandi nomi (Microsoft, Oracle, VMware, Adobe, etc.)

Escludo quindi qualsiasi software ‘custom’ sviluppato ad hoc per la PA, nonché qualsiasi servizio di assistenza, configurazione, etc.

Al paragrafo 3.2.3 (La spesa ICT per macrovoci hardware e software, pag. 32) della relazione di AgID sulla spesa ICT nella PA italiana, possiamo osservare che la spesa effettiva dal 2016 in poi, e previsionale per il 2019, è sempre stata superiore ai 700 milioni di Euro (addirittura 850 nel 2018).

Stiamo parlando di circa 12 Euro per cittadino italiano (inclusi infanti e pensionati) e di circa 64 Euro per ogni contribuente (escludendo quindi infanti, pensionati, persone con reddito minimo non soggetto a tassazione, disoccupati, etc.).

Dove vanno a finire tutti questi soldi? nella maggioranza dei casi, negli Stati Uniti.

È davvero necessario esportare tutti questi capitali, impoverendo lo Stato ed i contribuenti?

A cosa serve tutto questo SW?

Intanto chiediamoci a cosa serve tutto questo software di cui acquistiamo licenze d’uso.

In generale, possiamo suddividere tutto questo software in tre categorie principali:

  • software ‘server side’, ovverosia sistemi di virtualizzazione (VMware, …), sistemi operativi server (Microsoft, e parzialmente RedHat, ora IBM), e motori di database (Oracle, Sybase, …);
  • sistemi operativi lato client (Microsoft);
  • software di office automation e programmi di utilità (Office, Skype, Teams della Microsoft, Acrobat Pro della Adobe, etc.)

È importante anche chiederci cosa effettivamente acquistiamo: si tratta di licenze d’uso, e non della proprietà dei prodotti: acquistiamo quindi la sola possibilità di utilizzare un prodotto, sottostando alle condizioni commerciali imposte dai fornitori.

 

Una stima della spesa per il SW da Parte della PA

Ho provato a cercare il numero di dipendenti pubblici in Italia, ed ho trovato varie stime, più o meno aggiornate, ma il numero supera sempre i 3.000.000 di persone.

Non so se quella che vado a fare sia una stima corretta, ma nell’era dell’informatizzazione ipotizzerò che circa 1.000.000 utilizzi un computer per svolgere almeno parte delle proprie attività; tenendo conto dei numeri dei ministeri, oltre a quelli delle regioni e dei comuni, credo che la stima possa essere considerata ragionevole.

Naturalmente non dispongo dei numeri effettivamente contrattati dalla PA, ma sono stime ragionevoli quelle di 84$/anno per Windows 10 Enterprise (volume licensing), mentre al dettaglio Office 2019 Professional viene 440$: farò una stima di 116$/anno con una licenza analoga a quella di Windows (tanto per fare una cifra tonda di 200$/anno).

Il tutto senza contare che molto spesso i computer vengono acquistati già dotati di una licenza Microsoft, a cui occorre aggiungere quella ministeriale acquistata nei contratti quadro tra PA e fornitore

L’importo non è esatto, ma certamente non si discosta molto dalla realtà; in ogni caso, se così fosse, 1.000.000 PC x 200$ / anno = 200 milioni di dollari all’anno per Microsoft.

Se ad ogni utente viene dato un PC con Windows ed Office, ed ipotizzando che CONSIP sia riuscita ad ottenere mediamente dei prezzi di mercato, una postazione di lavoro viene a costare, come software di base, circa 200$/anno – si vadano i conti precedenti.

Non entro nel merito dell’hardware, che purtroppo in alcuni contesti non viene aggiornato in relazione alle esigenze degli utenti, ma troppo spesso viene sostituito troppo presto nonostante la possibilità di funzionare egregiamente ancora per anni.

Le licenze server di Microsoft vengono al dettaglio circa 1.000$ / processore – ipotizziamo che per la PA vengano soltanto 600$/processore, che ripartite su un periodo di 3 anni fanno 200$/anno/processore.

Quanti server e quanti microprocessori avrà la PA? Ipotizziamo (e sto facendo l’ottimista) 10.000 server e 2 core ciascuno, per un totale di 20.000 core, e quindi 20.000 core x 200$/core/anno = 4.000.000$/anno.

Veniamo ora alla virtualizzazione: quante saranno le istanze di virtualizzazione attive in Italia? Al momento non sono riuscito a reperire (e penso che sia impossibile) un numero certo.

Utilizzerò come stima il valore di una istanza ogni 10 server, che dovrebbe ottimisticamente mediare tra le installazioni con un più elevato livello di consolidamento dei server e quelli ancora non virtualizzati (senza contare tutte le installazioni di disaster recovery, che di fatto raddoppiano il numero di istanze e quindi di licenze).

La licenza per un’istanza con il servizio di assistenza e supporto per tre anni viene circa 3.000€/anno, per un totale di circa 10.000 server / 10 x 3.000€/anno = 3.000.000€/anno.

E poi ci sono Oracle, RedHat ed altri software server side di produzione, con i relativi contratti di assistenza e supporto business.

Per Oracle, ipotizzando anche soltanto 1.000 installazioni in tutta Italia (in generale su sistemi con un discreto numero di processori), ipotizzando anche soltanto 10.000$/processore/anno e 4 processori/server, troviamo 1.000 x 4 x 10.000$/anno = 40.000.000$/anno.

Ed in quanto sopra riportato non sono stati conteggiati tutti i pacchetti e moduli software aggiuntivi per l’amministrazione, il monitoraggio, l’integrazione, l’alta affidabilità, etc. etc. etc.

Come potete vedere, facendo dei conti assolutamente conservativi, emergono rapidamente le centinaia di milioni di Euro all’anno, che regolarmente vengono trasferiti negli States.

Tutto questo software commerciale è realmente indispensabile?

Chiediamoci ora se realmente tutto il software di cui acquistiamo la licenza d’uso sia indispensabile, o se possa essere sostituito da altro più economico.

Per la parte server, esistono due tipi di sistemi: quelli cosiddetti ‘di produzione‘, e quelli di sviluppo, di test, o dedicato ad applicazioni non critiche.

Per la parte client (ovverosia il computer, fisso o portatile) assegnato agli utenti, occorre chiedersi quali siano le attività che vengono principalmente svolte dagli utenti, che sostanzialmente sono:

  • consultazione della posta elettronica;
  • navigazione su Internet mediante un browser;
  • condivisione di file tra utenti;
  • office automation (redazione di documenti, gestione dati mediante fogli elettronici, e qualche presentazione …)
  • comunicazioni e videoconferenze (questo è vero soprattutto da quando si è iniziato a fare smart working in seguito alla pandemia di Codiv-19).

Naturalmente gli usi sopra descritti sono riferibili soltanto alla grande maggioranza di utenti, e non a quelli che svolgono attività particolari).

È importante ora fare una considerazione: il pianeta (inteso come infrastrutture e servizi informatici) funziona sostanzialmente utilizzando software libero (libero nel senso di open source, e non di gratuito): il fatto che un software sia libero non esclude che si possano pagare servizi di assistenza e supporto:

Perché questa considerazione?

Perché la stragrande maggioranza delle esigenze delle aziende e degli utenti possono essere soddisfatte con software libero, sia lato server che lato client.

Ciò che conta, in un ambiente di produzione, non è il ‘possesso’ di un prodotto (o almeno del diritto di utilizzarlo), ma un servizio di supporto che supporti il cliente nella risoluzione dei problemi che si presentano (e naturalmente di una consulenza per progettare e far evolvere i propri sistemi informativi).

Se leggete le condizioni di licenza dei diversi prodotti commerciali citati, noterete che sono previsti due tipi di importi da pagare: uno (obbligatorio) per acquisire il diritto di utilizzare il prodotto (alle condizioni imposte dal produttore), e l’altro (facoltativo) per avere il diritto di chiamare qualcuno chiedendo aiuto se qualcosa va storto …

Ecco, il software libero vi libera dalla prima voce, lasciandovi naturalmente la libertà di decidere se pagare un servizio di supporto o no per le applicazioni che ritenete più critiche.

Un aspetto interessante è che mentre nel caso di software proprietario, sia il costo della licenza che quello per i contratti di supporto vanno al produttore, nel caso di software libero avete (appunto!) la libertà di rivolgervi a chiunque riteniate sufficientemente qualificato per gestire i vostri potenziali problemi.

Un altro aspetto, fondamentale, che differenzia il software libero da quello proprietario, è la sua apertura: non è possibile trovarsi in situazioni di ‘lock-in’, ovverosia di essere costretti a mantenere un prodotto o un fornitore, perché le modalità in cui il produttore ha implementato alcune funzioni rende il prodotto incompatibile o non interoperabile con altri prodotti, liberi o di altre parti (limitando persino la possibilità di sviluppare in house del software di adattamento).

E concludo questo paragrafo sintetizzando il fatto che non è indispensabile utilizzare software proprietario: naturalmente esistono prodotti commerciali che sono migliori di prodotti liberi (così come è vero il contrario!); per applicazioni specifiche, in cui si ritiene che un prodotto commerciale sia più appropriato, è corretto selezionarlo ed utilizzarlo.

Ma ciò non è vero nella stragrande maggioranza dei casi.

Sicurezza nazionale

A parte ogni considerazione sugli aspetti economici, è da considerare anche l’aspetto della sicurezza nazionale; infatti come può lo Stato essere certo che non vi siano backdoor all’interno del software acquistato (anzi: licenziato) e che non vi siano meccanismi che possono consentire a ‘qualcuno’ di bloccare il funzionamento del software?

Di fatto il solo meccanismo dell’attivazione del software è un meccanismo simile: se il software non viene riconosciuto come valido dalla casa produttrice (o da un suo sistema installato nelle reti aziendali), il software smette di funzionare.

E c’è di peggio: l’utilizzo sconsiderato che si è recentemente iniziato a fare in occasione dello smart working di tecnologie quali Skype, Teams, WebEx, GSuite, Google Drive, OneDrive, (Dropbox?), ha di fatto messo in mano ad aziende private statunitensi una quantità smodata di documenti e conversazioni riservate ad ogni livello istituzionale.

C’è qualcuno che ha fatto un’analisi dei rischi? Ritengo di no, altrimenti si sarebbero prese altre strade da molto tempo.

Adozione del software libero nella PA

Con il CAD, la PA si è imposta delle regole finalizzare a razionalizzare la spesa e ridurre gli sprechi (e, perché no? anche l’impoverimento dello Stato con esportazione continua di capitali all’estero), imponendo la predilezione del software libero, a meno di motivatissime e documentate ragioni.

Ulteriore aspetto fondamentale è che la PA si è imposta l’obbligo dell’adozione di standard aperti, che garantiscono l’interoperabilità tra piattaforme di qualsiasi tipo: ciò di fatto esclude ogni software proprietario che implementa funzioni, o formati di dati, o protocolli, non interoperabili con le omologhe implementate mediante standard aperti.

Quanto sopra porta al fatto che la PA deve utilizzare soltanto software libero, a meno di specifiche e giustificate ragioni, e che qualsiasi software sviluppato per la PA deve conformarsi soltanto a standard aperti (per i formati dei dati, dei file, per i protocolli di comunicazione, etc.), e deve essere rilasciato sotto licenza libera.

Limiti e problemi nell’adozione del software libero nella PA

Quanto esposto al punto precedente è un ideale (speriamo che non sia un’utopia).

Cosa limita la PA nel rispetto del CAD che essa stessa si è data?

Le ragioni sono tante, e non penso di riuscire ad identificarle tutte in questo post; tuttavia, tra le tante, vediamo:

  • mancanza di informazione: se ogni dipendente statale venisse informato sul costo del software che pretende di utilizzare al posto di quello libero, e di quanto soldi ogni anno gli vengono trattenuti sullo stipendio per le tasse, probabilmente accetterebbe più favorevolmente l’evoluzione;
  • disinformazione diffusa: troppo spesso gira la voce che il software libero non è all’altezza di quello libero, ma se gli utenti sapessero che i propri smartphone utilizzano software libero, così come FaceBook, Google ed il proprio router Internet di casa, probabilmente proverebbero a considerare la cosa con maggior obiettività;
  • direttori e dirigenti non sufficientemente competenti, responsabili e motivati, che spesso vedono in queste attività soltanto la fatica immediata, le seccature derivanti nel breve termine, e qualche responsabilità da assumersi con scelte a volte non comode;
  • mancanza di adeguate competenze di committenti e responsabili di sistema, e dell’eventuale supporto specialistico, senza le quali non è possibile preparare adeguati capitolati e specifiche di collaudo;
  • … e (perché no?) potenziali interessi (visti i numeri in gioco) che esulano da quelli dello Stato (come si dice, a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca …).

Cosa si può (e lo Stato dovrebbe) fare …

Premetto che so che lo Stato ha tempi lunghi, ed il CAD lo dimostra: è del 2005, ma a distanza di 15 anni ancora il software e le comunicazioni sono in mano agli Stati Uniti (si colga ora l’occasione per rileggere il paragrafo sulla sicurezza nazionale …).

Cosa si potrebbe fare? occorre agire almeno sui seguenti fronti:

  • tecnico / legale: predisporre specifici allegati standard, sia tecnici che legali, che devono essere acclusi ad ogni bando di gara per forniture software, chiarendo quali sono gli standard (aperti!) adottati dalla PA e quali sono le modalità standard per l’interoperazione e collaborazione tra sistemi; tali documenti devono definire anche in modo chiaro e formale come devono essere predisposte le specifiche di collaudo ed accettazione, in modo da evitare situazioni in cui la PA è costretta ad accettare delle forniture inadeguate perché i requisiti progettuali sono stati prodotti da persone non competenti o senza cognizione della destinazione d’uso del prodotto da realizzare;
  • formazione delle stazioni appaltanti: è indispensabile formare e fornire gli strumenti alle stazioni appaltanti per verificare la conformità normativa delle richieste di acquisto per software commerciale e per lo sviluppo di software applicativo per la PA;
    per il primo, deve esistere la necessaria analisi prevista dal CAD, sottoscritta da una persona competente e responsabile per il progetto da realizzare, e
    per il secondo, occorre accludere ai bandi gli allegati standard di cui sopra per tutte le commesse di sviluppo software, in cui sia chiarito che qualunque prodotto che non si conformi a standard aperti, e che non si conformi alle architetture ed ai requisiti standard definite dalla PA non potrà essere collaudato né accettato;
  • client: questa è la nota dolente: l’utente finale è estremamente refrattario ai cambiamenti; tuttavia piattaforme client non standard lasciano aperta la strada ai fornitori per lo sviluppo e la fornitura di sistemi che mantengono il lock-in del cliente; occorre pertanto fare un censimento incrociato delle applicazioni utilizzate e degli utenti che le utilizzano (non tutti usano tutto), ed iniziare a riconfigurare tutte le postazioni che non hanno requisiti particolari con postazioni basate interamente su software libero;
    mano a mano che si procede emergono le applicazioni non standard, per cui la PA dovrà appaltare l’adeguamento), ed il cosiddetto shadow software, ovverosia tutti quei programmi sviluppati autonomamente dagli utenti e dagli Uffici, in mancanza di strumenti previsti e realizzati dall’Amministrazione; per tutti questi occorrerà procedere all’adattamento a software libero (e meglio ancora all’assimilazione del software trasversalmente più utile a livello nazionale), e quindi al conseguente aggiornamento a software libero dei computer degli utenti;
  • server: pur essendo vero che per alcune applicazioni possono essere necessari prodotti commerciali specifici, ciò non è necessariamente vero per tutte le applicazioni e per tutti i contesti; molte volte viene utilizzato software proprietari (e molto costoso) dove in realtà non vengono utilizzate funzionalità specifiche, ma soltanto quelle standard (penso ad esempio al file management, o al linguaggio SQL per i database); inoltre anche per gli ambienti di sviluppo e prova è spesso possibile utilizzare software libero (penso ad esempio agli ambienti di virtualizzazione, ai sistemi operativi ed ai database).
    Esistono inoltre piattaforme di amministrazione e gestione (software libero) che consentono di amministrare e gestire in modo uniforme ambienti e piattaforme liberi e non, così da non richiedere la duplicazione di know-how, competenze e persone per la gestione dei sistemi.
  • middleware: software legacy, datato, non conforme agli standard e che presuppone l’esistenza di software non standard lato server o, peggio, lato client, deve essere rapidissimamente aggiornato o sostituito, in quanto è un anello chiave nella catena che tiene legato il cliente ai produttori di software proprietario;
  • educazione: praticamente in tutte le scuole i docenti utilizzano software proprietario (si legga, Windows e MS Office), privando gli allievi della necessaria informazione per scegliere liberamente, e costringendo i genitori a spendere soldi per acquistare qualcosa che non è necessario (e di questi tempi i soldi non piovono dal cielo …); se poi una famiglia ha più figli, le licenze per il sistema operativo e per la suite di office automation si moltiplicano ….
    I genitori stessi non sanno di avere una scelta: lo Stato deve fare informazione.
  • divulgazione: lo Stato dovrebbe provvedere all’informazione e all’educazione dei cittadini; un semplice spot della Pubblicità Progresso, anche trasmesso non frequentemente, potrebbe iniziare a far girare la voce che esistono delle alternative …

Approccio economico

L’obiettivo di questo mio post non è quello di portare a tagli sconsiderati e ad un risparmio selvaggio: in medio stat virtus, diceva Aristotele (ovviamente lo diceva in greco antico) …

Ritengo che un buon obiettivo potrebbe essere quello di mantenere una spesa di 200 milioni per il software critico o per cui non vi è un’adeguata alternativa libera (e questo include principalmente il software server side).

Dei restanti circa 500 milioni, se ne potrebbero dedicare inizialmente 200 per l’adeguamento e la normalizzazione di tutti gli applicativi non conformi al CAD, ed i 300 rimanenti potrebbero essere ripartiti con un piccolo risparmio per lo Stato (100) ed un investimento (200) in formazione del personale della PA e per la creazione di posti di lavoro per un nuovo ecosistema di persone ed aziende italiane specializzate nel supporto al software libero ed al supporto agli applicativi della PA.

A tendere (nell’arco di 3-4 anni) su può puntare ai soliti 200 milioni per software critico, 250 di risparmi per lo Stato, e 250 di investimenti nell’ecosistema del software libero e delle aziende specializzate nel supporto ed evoluzione dello stesso.

Nel suo piccolo, quest’idea porterebbe ad un risparmi di 1 miliardo di Euro ogni quattro anni, e ad un investimento analogo nella creazione di posti di lavoro.

Conclusioni

L’Italia soffre oggi di un retaggio derivante dal periodo delle ‘vacche grasse’ del boom economico, della lottizzazione politica e degli interessi particolari posti sopra a quelli dello Stato.

L’inerzia delle Istituzioni, la mancanza di competenze e la deresponsabilizzazione ad ogni livello (ed attualmente anche la pandemia Covid-19) hanno portato l’Italia ad accumulare un debito spaventoso.

Non esiste una soluzione unica che possa risolvere questo problema, ma anche un rapido intervento sul risparmio sul software potrebbe portare lo Stato a ridurre il continuo impoverimento dei cittadini mediante esportazione dei capitali, riducendo al contempo le spese, ed investendo almeno parte delle risorse recuperate nella creazione di posti di lavoro.

Riferimenti

 

La PA ed i monopòli del software martedì 7 ottobre 2008

Posted by andy in Etica, Miglioramento.
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Retaqgio di un tempo passato, ancora oggi il software sviluppato da aziende private per la PA è di fatto gestito in regime di monopolio.

Pur essendo i sorgenti del software ufficialmente proprietà della PA, non basta che vengano consegnati dei CD pieni di codice per poter affermare che il software sia stato realmente consegnato.

Un software è realmente consegnato quando il materiale che viene fornito è sufficiente per mettere in condizione il ricevente di poterne riprodurre ed installare una versione funzionante, e di poterne effettuare la manutenzione.

In realtà questo non accade, o accade solo parzialmente, lasciando di fatto nelle mani delle aziende sviluppatrici  il controllo ed il monopolio per la manuntezione correttiva ed evolutiva.

Pur essendo un comportamento eticamente scorretto, e pur essendovi dell’intenzionalità da parte dei privati nel sostenere questo stato di cose, non è tuttavia possibile dare a questi tutti i torti e le responsabilità della cosa.

Una (buona) parte delle responsabilità cade sulla PA per una serie di ragioni:

  • in primis perché non vengono create le appropriate condizioni commerciali per una reale competitività sulle offerte; il software esistente è sì nelle mani della PA, ma questo non viene reso disponibile al mercato dei potenziali fornitori se non dietro esplicita richiesta ed in occasione di un bando di gara; questo significa che nessuna azienda ha la possibilità di poter prendere in mano il software con anticipo tale da poter effettuare una valutazione economica oggettiva per partecipare alle gare;
  • in secondo luogo perché vengono imposte condizioni commerciali non negoziabili talmente tirate che non rimane al fornitore lo spazio per la desiderata gestione della Qualità del prodotto, che viene pertanto limitata al minimo indispensabile;
  • non da ultimo il fatto che la PA in generale non si è attrezzata con strutture proprie interne preposte alla presa in carico del software, con la responsabilità di riprodurre i prodotti ed i sistemi commissionati all’esterno partendo dalla documentazione e dai sorgenti forniti;
  • da ultimo, e tutto sommato abbastanza grave, il fatto che la PA non è in grado di stabilire delle linee guida strategiche sufficientemente chiare e condivise (o imposte) tra tutti i ministeri e gli enti, e non è spesso in grado di identificare con chiarezza e precisione nei contratti i requisiti del prodotto da realizzare, lasciando così troppi gradi di libertà al fornitore, che di fatto progetta e consegna ciò che ritiene meglio per sé più che per il cliente.

Non bisogna poi sorvolare su progetti che, pur essendo incompleti o insoddisfacenti, devono per forza di cose essere collaudati con esito positivo pena la decadenza dello stanziamento dei fondi.

Ed in tutto questo marasma annaspano e devono destreggiarsi coloro che (interni ed esterni) si trovano, loro malgrado, a dover mandare avanti la baracca, sopperendo con le proprie capacità e la propria buona volontà ai problemi che si presentano di volta in volta.

Ma i tempi stanno cambiando, ed a breve inizieranno a palesarsi gli effetti dei germi del rinnovamento.

I principali elementi penso che saranno:

  • la definizione di standard di interoperabilità nazionali, e sovranazionali;
  • l’apertura del codice e delle specifiche al mercato;
  • la valorizzazione delle risorse interne della PA;
  • la valorizzazione della peer review da parte sia degli specialisti interni che del pubblico.

La PA e la realizzazione delle sue applicazioni. venerdì 26 settembre 2008

Posted by andy in Internet e società, Miglioramento.
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Oggi l’insieme della applicazioni della PA è un gran pasticcio, perché manca una visione d’insieme.
E con visione d’insieme non parlo di fare un contratto nazionale per la telefonia e le linee dati (OK, ci vuole anche quello), ma di avere un approccio pragmatico nella gestione delle informazioni.

Quante anagrafiche esistono oggi, tra loro indipendenti e non allineate? Tante!
INPS, Fisco, Giustizia, anagrafi locali, Camere di Commercio, PRA, settore militare, servizi segreti,  etc.).
Per non parlare di banche dati parallele che forniscono servizi per la PA.

E che dire delle tecnologie?
Queste non sono state selezionate centralmente, per avere uniformità e poter condividere know how e ridurre costi: molto (troppo) spesso vengono decise dai fornitori che prendono gli appalti per l’informatizzazione, che per interesse privato o per ignoranza rifilano al cliente ciò che più gli fa comodo, spesso infilandosi in tunnel realizzativi incredibili, da cui faticano o non riescono ad uscire – sicuramente non con risultati soddisfacenti per gli utenti dell’Amministrazione né per il cittadino, né tantomeno per le finanze.

E vogliamo aggiungere il fatto che in pratica l’Amministrazione non <i>possiede</i> neppure il codice dei programmi che ha commissionato?
In realtà questo resta nelle mani dei fornitori, che in questo modo creano un monopolio tale da bloccare qualsiasi evoluzione.

Il ragionare dei ministeri e degli uffici come enti autonomi e indipendenti dagli altri, l’incapacità di definire poche ma chiare linee guida che consentano all’Amministrazione di mantenere il controllo su ciò che viene realizzato, e la mancanza di organismi e competenze trasversali creano ridondanza, complessità ed inutili costi aggiuntivi.

A peggiorare la situazione la sostanziale non conoscenza delle tecnologie disponibili porta a stanziare montagne di soldi per l’acquisto di prodotti per cui sono disponibili degli equivalenti gratuiti, distogliendo così i fondi dai punti critici su cui intervenire.

Ciò che non è ancora stato compreso è che il costo di acquisto di un prodotto è in generale ridicolo rispetto al costo per la sua conduzione, manutenzione ed evoluzione, e che a tali costi occorre aggiungere il danno pubblico per i ritardi nell’adeguamento dei servizi in relazione alla mutazione della legislazione.

Occorre pertanto creare un organismo trasversale a tutta la PA che definisca linee guida comuni, e che crei i mattoni fondamentali comuni a tutti gli enti, ed a cui gli enti possano partecipare costruttivamente, sia con le proprie competenze sia con il proprio contributo realizzativo.

Con i soldi che ogni anno vengono spesi in licenze proprietarie l’Amministrazione potrebbe finanziare la realizzazione delle proprie applicazioni, fornendo incentivi agli enti più produttivi.

Opportunità per la riduzione degli sprechi nella PA mercoledì 10 settembre 2008

Posted by andy in Miglioramento.
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Occupandomi di Qualità ed ottimizzazione di processo per un’azienda che opera come fornitrice di servizi ICT per la Pubblica Amministrazione, mi sono messo per curiosità a fare quattro conti sui risparmi che si potrebbero ottenere adottando delle semplici politiche di risparmio energetico presso un edificio della PA di Milano, con alcune migliaia di PC.

Utilizzando parametri pessimistici, è emerso un possibile risparmio per il solo utilizzo di PC che varia dai 500.000 ai 2.500.000 Euro all’anno.

Il valore dei 500.000 Euro corrisponde al caso migliore (quello in cui gli utenti già stanno molto attenti al risparmio energetico), mentre quello dei 2.500.000 corrisponde al caso in cui nessun utente presti attenzione ai propri consumi.

Ritengo più che probabile che sia più che realistico un possibile risparmio di 1.000.000 Euro / anno.

Ora, con tutti questi soldi si potrebbe aggiornare il parco macchine più obsoleto, conseguendo un ulteriore risparmio energetico dovuto all’hardware di nuova generazione.

E fin qui tutto bene.

Ho quindi sottoposto la questione al referente per l’Informatica per tali uffici, che ha apprezzato l’idea, ma che mi ha spiegato perché è sostanzialmente irrealizzabile.

La situazione è infatti la seguente: la bolletta della corrente viene pagata non dall’ente ospitato nel palazzo, ma dal Comune di Milano, che a sua volta gira i costi al Ministero, dal quale viene riconosciuto un rimborso dell’80%.

In pratica, qualunque soluzione venisse adottata per ridurre, anche drasticamente, i costi, non darebbe margini di manovra all’ente ospitato, in quanto l’energia non è una voce del proprio budget.
Qualsiasi proposta al Comune non solleverebbe particolare interesse, in quanto il delta di interesse sarebbe soltanto il 20% sull’effettivo risparmio, ed il Ministero che sostiene i costi non prevede incentivi al risparmio.

In pratica nessuno ha un concreto interesse a diminuire tali costi.

Purtroppo la bolletta della corrente consumata da questo palazzo fa il giro d’Italia, passando di ufficio in ufficio, senza che qualcuno possa trarre qualche beneficio da un eventuale risparmio (cosa che motiverebbe ad intervenire in qualche modo).

E da quanto sopra, alcune idee per incentivare il risparmio:
la PA potrebbe offrire come extra budget ad ogni ente il 50% del risparmio conseguito su ogni voce.
Tale budget potrebbe essere utilizzato in parte (il 5%?) come bonus per i promotori delle soluzioni di risparmio, ed il resto per ulteriori interventi orientati al risparmio energetico, alla sicurezza degli ambienti ed al miglioramento del servizio e delle infrastrutture in generale.

Si pone ovviamente una condizione di responsabilità: i bonus accordati devono essere corrisposti a distanza di qualche anno dal conseguimento del risparmio, in modo che possano essere revocati nel caso in cui le scelte effettuate non siano valide (o addirittura penalizzanti) a breve o lungo termine (è troppo facile tagliare selvaggiamente per incassare gli incentivi, per poi creare situazioni di peggior disservizio).

Tenendo conto della quantità di uffici presenti in Italia, ed estendendo l’approccio ad altri capitoli di spesa, ritengo che i numeri possano diventare molto interessanti.