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… forse manca una strategia per la formazione a livello nazionale … domenica 2 febbraio 2014

Posted by andy in Information Security, Internet e società, Politica.
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È di pochi giorni fa la notizia che per il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza “A scuola non serve insegnare il digitale”.
In sostanza, la sua visione del futuro digitale dei giovani è che debbano imparare a muoversi con sicurezza in Rete perché a scuola utilizzeranno il computer per studiare sui nuovi libri digitali.

Il fatto che la sicurezza in Rete sia un problema di tutti i cittadini non risolve il problema di come si potrà educare un’intera popolazione, composta di generazioni con culture informatiche differenti (spesso inesistenti).

Il ministro non fa i conti con il fatto che tra una decina d’anni i ragazzi che oggi stanno finendo le medie già si occuperanno di politica, e che tra una dozzina d’anni saranno già responsabili della sicurezza delle informazioni che gestiranno nell’ambito della Pubblica Amministrazione e di aziende che, tramite l’innovazione, dovranno trainare l’economia del Paese.

Il problema non è tanto l’introruzione di ore specifiche di insegnamento, ma quello dei contenuti da insegnare: l’idea di insegnare l’Etica in Rete all’interno delle ore di Educazione Civica non è sbagliata, ma non può prescindere dalle tecnologie utilizzate (la crittografia, tanto per indicarne una), e non può prescindere dal fornire adeguate competenze ai docenti.

E l’altro aspetto che sembra sfuggire è che, mentre la stampa ha semplicemente accelerato e democratizzato l’accesso all’informazione per tutta la popolazione, oggi è la popolazione che crea e pubblica informazione: si è in sostanza reso bidirezionale (o meglio, multidirezionale) il flusso delle informazioni.

Politici ricattabili, e persone che si faranno ‘sfilare’ da sotto il naso informazioni aziendali riservate non contribuiranno certamente ad una crescita politica ed economica del Paese.

Etica d’impresa e responsabilità sociale giovedì 23 aprile 2009

Posted by andy in Etica, Miglioramento.
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C’è chi pensa che il crollo di tutta l’economia virtuale possa diventare una opportunità per riportare la produzione al centro dell’azienda. Tutto ciò dovrebbe passare attraverso una nuova formazione, ad una forte Etica sul lavoro. La futura impresa Etica, prima di tutto dovrebbe saper vendere prima di tutto fiducia sul mercato, e quindi anche un prodotto. L’imprenditore per essere Etico, dovrebbe coinvolgere tutte le risorse umane all’interno dell’azienda, creando quel circolo virtuoso basato sulla fiducia reciproca, da cui tutti traggano benefici, comprese le future generazioni.

Ma forse questa è utopia.

La crisi è certamente un’opportunità di crescita, ma non necessariamente per (o soltanto per) coloro che adottano un approccio etico; anzi, è proprio nei momenti di crisi che appaiono gli sciacalli.
L’Etica è principalmente un fatto personale; se ce l’hai, la applichi in tutte le cose che fai, a partire dalle relazioni personali, e quindi anche in quelle con i collaboratori diretti, fino all’ultimo anello della catena commerciale su cui hai influenza.
Ma l’Etica in un mondo di furbi ti pone in una posizione di estrema vulnerabilità, proprio perché in generale si tende ad esporre il fianco a coloro che vogliono approfittare della tua correttezza.
Un approccio etico sta in generale in piedi finché il business è relativamente limitato, e quindi è limitato il numero di persone con cui si collabora, e la quantità di soldi che vengono gestite.
Appena il business cresce, in generale emerge qualcuno che baratta volentieri la propria etica per una maggior quantità di denaro.
E questo significa rapporti incrinati con i collaboratori, ed una gestione finanziaria che tende ad essere sempre meno trasparente e meno orientata al bene generale dell’azienda.
Pertanto, per avere un’azienda che possa fregiarsi di una reale Etica, in generale occorre che il proprietario sia uno solo (padre padrone …), o che esistano regole e controlli tali da impedire comportamenti scorretti.
In questi anni stanno emergendo nuove certificazioni (SA8000, OHSAS18001, etc.), nonché normative (responsabilità delle persone giuridiche) e concetti come il bilancio sociale.
Sono tutte manifestazioni di un mercato malato che cerca di reagire creando i presupposti per difendersi più facilmente dai furbetti.
Il problema è che siamo in Italia, ed anche queste certificazioni tendono ad essere viste ed approcciate come dei semplici ‘bollini blu’ dietro a cui nascondersi continuando ad operare come prima.
Sarebbe interessante studiare e sviluppare degli indicatori di eticità dell’azienda, indicatori oggettivi, intendo, tali da poter essere pubblicati e confrontati.
Qualcosa di simile al rating dato ai post o ai venditori su Paypal, ma ovviamente oggettivi e non ‘taroccabili’.

Come organizzare l’immigrazione mercoledì 30 luglio 2008

Posted by andy in Miglioramento.
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Anni fa mio fratello ha vinto una borsa di studio di un anno in America.

Con la borsa di studio già in mano, per poter prendere l’aereo e fruirne ha dovuto prima dare degli esami di ingresso, di lingua inglese, storia americana e codice della strada.

Superare quegli esami significa per un immigrato potersi muovere e relazionare con la gente del paese ospite, potendo anche coglierne lo spirito e le tradizioni.

Qui in Italia invece non si fa niente. Tutte quelle belle parole sull’integrazione di cui si riempiono la bocca i politici sono vuote, ed assumono un significato soltanto grazie alla disponibilità degli istituti di beneficienza, spesso religiosi, e delle persone ed imprenditori che costituiscono il popolo italiano.

Ma quante possibilità ha una perrsona che non parla la nostra lingua di trovare un lavoro, e quando l’abbia trovato, di svolgerlo in sicurezza? Molto poche.

Se lo trova, rischia di farsi male, ed in caso contrario gli rimane soltanto l’arte di arrangiarsi ed alla fine di divenire, suo malgrado, un criminale.

Perché non investiamo almeno un po’ di tutti quei soldi che inviamo sottoforma di aiuti ai paesi del terzo mondo in corsi di lingua e di formazione nei paesi d’origine, in modo che i più meritevoli possano emigrare verso l’Italia sapendo di avere la certezza dell’integrazione e del posto di lavoro?

Potrebbero occuparsene ambasciate e consolati, già presenti sul territorio, che ben conoscono le realtà locali.

E di più, un’ulteriore opportunità potrebbe derivare organizzando qui in Italia dei corsi avanzati per formatori, che a loro volta tornerebbero nel paese d’origine a trasferire le conoscenze acquisite ai propri compatrioti.

Immigrazione e solidarietà mercoledì 30 luglio 2008

Posted by andy in Miglioramento.
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Riprendo un’idea che mi fu presentata tanto tempo fa, e che può essere che sia anche stata attuata da qualche stato europeo.

Ogni giorno il telegiornale ripropone la drammaticità dell’immigrazione clandestina, e del suo costo in vite umane ed il suo costo sociale.

Vengono da noi cercando la terra dell’oro, una terra che ormai ha ben poco da offrire persino ai propri abitanti.

E la crescente offerta di mano d’opera fa tendere al ribasso gli stipendi.

E nel frattempo i paesi da cui gli immigrati provengono si impoveriscono ogni giorno di più, mancando le prospettive di crescita ed evoluzione.

I finanziamenti dei fondi mondiali, si sa, difficilmente arriveranno nelle tasche del popolo.

Ma cosa si può fare? Ebbene, una cosa si può davvero fare.

Occorrerebbe gestire l’immigrazione con uno spirito diverso, più costruttivo.

Si potrebbe fare in modo che una parte dello stipendio guadagnato dall’immigrato venisse accreditata su un conto nel paese d’origine; in questo modo dopo un po’ di tempo l’immigrato si troverebbe ad aver imparato una professione e ad aver accumulato un piccolo capitale in patria, ove potrebbe tornare con uno spirito da imprenditore, portando professionalità e lavoro.

E la cosa potrebbe tornare utile anche alla nostra industria, che potrebbe essere interessata a rinnovare il proprio parco di macchinari vendendo per poco le proprie macchine vecchie a questi nascenti imprenditori, che potrebbero proseguire la produzione nel proprio paese, a costi inferiori ai nostri.

In questo modo nel nostro paese si potrebbe puntare sull’innovazione, avendo la certezza di un volano che sostiene la produzione tradizionale nel periodo di transizione.