Quanto vale oggi l’Accademia della Crusca? venerdì 1 maggio 2020
Posted by andy in pensieri, qualità.Tags: Accademia della Crusca, lingua italiana, significato, traduzione
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A cosa serve una lingua, un linguaggio? Di fatto, è una semplice convenzione per poter comunicare, inviare informazioni potendo presumere che verranno recepite e comprese con il significato che si intendeva trasmettere.
Ciò significa che i termini che vengono utilizzati devono avere un significato univoco e condiviso.
Questo può naturalmente non essere vero se le parti non hanno convenuto su un singolo linguaggio, ma uno trasmette utilizzando una lingua, e l’altro ‘riceve’ (ascolta) in un’altra.
Occupandomi di Informatica, sento spesso utilizzare termini quali scansionare, scannerizzare e scannare, per indicare l’azione di digitalizzare un documento.
Volendo andare a vedere l’etimologia del termine scandire, esso deriva dal Greco (schedos), e poi dal Latino scandĕre, con il significato di distinguere / separare i versi, da cui poi per derivazione in Italiano si utilizza il termine per scandire bene le parole, e così via.
Il salto tecnologico è stato fatto con i primi apparecchi di digitalizzazione, da cui poi sono derivati anche i telefax, poi abbreviato in fax: la trasmissione delle immagini avveniva infatti mediante la scansione, punto per punto, della superficie, in modo da assegnare ad ogni punto un valore bianco o nero, codificando e trasmettendo poi tale valore all’apparecchio ricevente, che in relazione al valore ricevuto stabiliva se non stampare nulla oppure stampare un punto nero, e passare quindi al punto successivo.
Il verbo ‘scandire’ si traduce in Inglese con ‘to scan’, e per estensione il dispositivo che effettua la scansione è stato denominato ‘scanner’.
Purtroppo la diffusione di tale tecnologia (sviluppata e commercialmente principalmente da paesi anglosassoni) ci ha portati a derivare da tale nome un nuovo verbo che, non esistendo (o meglio, essendo già esistente ma ignorando i più la sua esistenza), ha dato ampio spazio a coniare neologismi di ogni tipo quali, appunto, scansionare, scannerizzare e scannare.
A parte il fatto che il termine corretto dovrebbe essere scandire, o al più digitalizzare, il neologismo che più mi interessa è scannare.
Tale termine già esiste nella lingua italiana, ma ha un significato totalmente diverso: si tratta infatti dell’azione di uccidere un animale recidendo le arterie del collo e la trachea.
Ed è tempo ora di tornare al concetto di linguaggio ed alla necessità di evitare ambiguità.
Facciamo un esempio banale: in italiano sappiamo tutti che il ‘burro‘ è un derivato del latte; tuttavia in spagnolo la parola ‘burro’ ha il significato di ‘asino‘.
È evidente quanto sia importante concordare sul significato delle parole, onde evitare di spalmare quadrupedi su fette di pane, o di caricare qualche quintale di legna su un panetto di latticino.
Immaginatevi ora se la stessa parola avesse addirittura due significati (non accezioni) nella medesima lingua: sarebbe come dire che in Matematica il numero 2 può valere due unità, ma anche 123456, o in Fisica, che il grammo può rappresentare un peso ma anche una lunghezza.
Per fortuna c’è chi si occupa di impedire questo tipo di ambiguità.
Per la lingua italiana, il garante riconosciuto della purezza della lingua è l’Accademia della Crusca; tra i suoi principali obiettivi leggiamo: “acquisire e diffondere, nella società italiana e in particolare nella scuola, la conoscenza storica della nostra lingua e la coscienza critica della sua evoluzione attuale”.
Se l’Accademia non si premura di chiarire l’esistenza e la differenza tra i termini ‘scandire‘ e ‘scannare‘, chi lo deve fare?
Essere al passo con i tempi e mantenersi aggiornati non significa rinunciare alla propria missione per non dire al popolo che sta utilizzando il termine scorretto: in questo modo non si produce cultura ma ignoranza, e si fa perdere di credibilità ad un’Istituzione che ha quasi cinque secoli di storia.
Vorrei lanciarmi in qualche considerazione sull’utilizzo del termine ‘suggestione‘ adottato da molti giornalisti in questi ultimi anni nell’accezione di ‘suggerimento‘, grazie all’ignorante traduzione dall’inglese di ‘suggestion‘, ma questa è un’altra storia …
Cosa vede l’eremita durante il periodo del nCOVID-19 sabato 28 marzo 2020
Posted by andy in Etica, pensieri.Tags: Coronavirus, COVID-19, nCOVID-19
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Sui professionisti della gestione della sicurezza delle informazioni venerdì 18 febbraio 2011
Posted by andy in Miglioramento, pensieri.Tags: associazioni di categoria, cartello, costi ed investimenti, lobby, modifiche normative, privacy, sicurezza delle informazioni, valore della sicurezza
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Leggo sempre più spesso commenti di persone e professionisti nel settore della gestione della sicurezza delle informazioni che manifestano insoddisfazione per quanto non sia riconosciuta l’importanza del problema e dei professionisti in grado di trattarlo.
Ma qual’è, in sintesi, la situazione? Quali i problemi di fondo?
E cosa si può fare per migliorare?
Un momento di sintesi ogni tanto non fa male.
Contesto / situazione
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Direi che la discussione parte dal fatto che più o meno tutti quanti, e più o meno razionalmente, ci rendiamo conto che la sicurezza delle informazioni è sottovalutata, e così la professionalità di chi è in grado di gestirla.
Non ho informazioni dirette su quanto accade all’estero, ma dai commenti che circolano, mi pare che il problema sia più accentuato in Italia che all’estero.
Problema/i
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I problemi, di fatto, son sempre i soliti: veniamo messi in competizione con il nipote dell’amico, che è capace di installare un server ‘Windows’, e che sa usare Ubuntu.
Eppoi non si può andare dal cliente a dirgli che la sua infrastruttura va bene per scolare la pasta …
Altro problema è che gli investimenti nella sicurezza delle informazioni (certificazioni personali ed aziendali) non vengono riconosciuti come tali, e quindi sono soggetti a ribasso in sede di gara; al contrario, i costi / investimenti per la sicurezza sul lavoro non possono essere soggetti a ribasso.
Dal punto di vista normativo poi la situazione è che la Telecom di turno soggiace alla medesima normativa sulla protezione delle informazioni che si applica al tornitore con due operai nel garage sottocasa (OK, dovrà forse avere qualche nulla osta, o essere presente nell’ennesimo albo che certifica ex-lege che è bravo, a prescindere da quello che accade realmente).
E sempre rimanendo in tema normativo, le leggi vengono sempre pensate per lasciare ampio spazio all’arbitrio, in modo che non sia possibile stabilire requisiti minimi, confrontare i fornitori ed il loro modo di operare, ed anche in caso di pasticci seri, una decisione definitiva la si ha dopo una quindicina d’anni, quando ormai l’appalto è concluso ed i soldi sono stati portati a casa comunque, indipendentemente dalla quantità ed entità dei guai combinati.
Cause
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Penso che una delle cause di fondo del problema sia da imputare al fatto che da noi la sicurezza viene vista come un costo e non come un investimento.
Altro aspetto è che la sicurezza non si può vendere: non si può misurare in Kg, in scatole di software, in linee di codice.
In sostanza, i commerciali, che di norma sono bravi a vendere, ma non sanno cosa vendono, non sono in grado di applicare un tariffario (2 computer = 2 licenze, questo lo sanno fare, ma …)
Altro aspetto per me rilevante è che sicurezza è una seccatura: se il professionista di turno scopre qualche vulnerabilità (o più probabilmente qualche voragine) nel software o nelle infrastrutture che ho messo in piedi dal cliente, questo mette in imbarazzo me fornitore, ma anche il cliente rischia la figuraccia per avermi dato il lavoro.
In pratica alla fine è meglio nascondere la polvere sotto al tappeto, e la si chiude a tarallucci e vino.
Ed infine agli occhi del management la sicurezza esiste a priori, fino a prova contraria.
Il professionista lo pago quando ormai è troppo tardi ed è accaduto qualcosa per cui si è finiti sui giornali).
Di conseguenza la sicurezza ordinaria può essere tranquillamente gestita da chi sa amministrare un server (i.e creare utenti e fare un backup).
Ecco, qui colgo l’essenza del problema: noi italiani siamo reattivi e non proattivi; in sostanza, non guardiamo avanti.
Sulle certificazioni
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C’è chi le ritiene indispensabili, chi privilegia l’esperienza e le referenze, e chi ritiene le certificazioni soltanto un minimo sindacale.
La realtà probabilmente è un insieme delle tre visioni.
Da persone, e da professionisti, tendiamo a valorizzare al massimo la persona e le sue capacità: se uno è bravo e competente, lo è anche senza un pezzo di carta appeso al muro.
Ma d’altra parte proprio noi che dobbiamo basarci su criteri oggettivi per poter fare affermazioni sullo stato della sicurezza (o non sicurezza) delle informazioni, difficilmente possiamo pretendere che i clienti ritengano qualificate le persone che gli mandiamo, ‘perché lo diciamo noi’.
La certificazione non è garanzia della validità della persona, ma garantisce un livello minimo di competenze, così come la licenza elementare garantisce che una persona sappia leggere, scrivere e far di conto, ed il liceo classico che una persona conosca latino e greco.
Associazione / lobby / cartello
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Certamente il peso che abbiamo come singoli non è quello che potremmo avere come associazione.
Purtroppo il cartello ex-lege (leggi: l’ordine professionale che certifica per legge che siamo gli unici bravi a fare certe cose) ce lo possiamo scordare.
Si possono fare associazioni, e tante già ne esistono.
Come qualcuno ha osservato, le associazioni si riducono ad essere l’ennesima tassa da pagare, per avere un ulteriore bollino sul proprio biglietto da visita.
Il problema è che, da bravi italiani, ci aspettiamo che l’associazione faccia qualcosa per noi. Purtroppo invece la cosa deve essere vista da un altro punto di vista: cosa possiamo fare noi per l’associazione?
E in aggiunta: un’associazione si costituisce in quattro e quattr’otto: il problema non è costituirla, ma sapere il perché costituirla.
Cosa possiamo (o vogliamo) fare come associazione che non possiamo fare come singoli?
Cosa vogliamo? Sederci in modo autorevole ai tavoli di chi legifera? Stabilire i canoni per la gestione della sicurezza nelle gare e nell’esecuzione degli appalti?
O semplicemente vogliamo il nostro tariffario, come notai ed avvocati? (cosa assolutamente lecita, ma forse un po’ riduttiva della nostra professionalità).
Certamente deprime già in partenza il sapere che, anche arrivando a sedersi ai tavoli giusti, qualsiasi cosa rimane aleatoria, indefinita per anni, senza arrivare a decisioni concrete entro tempi utili, e che la politica è in grado di vanificare anche la migliore proposta tecnico-operativa.
E quindi, che fare?
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C’è molto da fare.
I tavoli giusti esistono, e si può pensare di poterci arrivare presentandosi con un cappello che non sia soltanto la propria referenza personale.
Di associazioni già ne esistono (leggi: CLUSIT), per occorre chiedersi se diversificare ulteriormente o dare maggior peso ad essa.
Divide et impera, dicevano i romani; l’ennesima associazione farebbe certamente un favore agli interlocutori, che si troverebbero a doversi interfacciare con tanti attori, e a non poter/voler dire a nessuno che non è quello con cui ci si può relazionare ufficialmente.
Se abbiamo voglia di rimboccarci le maniche, di proposte concrete da fare ce ne sono.
Un anno in meno di liceo o scuola secondaria superiore … giovedì 20 maggio 2010
Posted by andy in pensieri, vita quotidiana.add a comment
Ho letto sul corriere una proposta per «Accorciare di un anno la scuola superiore».
Non si tratta di una riforma che cade dall’alto, ma arriva dagli addetti ai lavori e più precisanente dal Magnifico Rettore dell’Università Bocconi. Scopo della proposta è anticipare di un anno l’incontro tra i giovani laureati e il mondo del lavoro.
Secondo costui gli anni giovanili sono i più fertili nell’apprendimento e i più elastici e flessibili nell’acquisizione del modus operandi aziendale, e rinviare il momento dell’approdo degli studenti alla realtà aziendale a causa di un ciclo di studi eccessivamente lungo e ripetitivo rappresenta secondo il Rettore un danno per il curriculum professionale individuale e per le stesse aziende.
Personalmente ho girato un po’ il mondo, più per lavoro che per diletto.
Si può dire tutto della scuola italiana, ma vi assicuro che noi italiani abbiamo un’elasticità che ci invidiano dovunque.
Le ragioni? Probabilmente molte; sicuramente il fattore culturale, ma personalmente credo che sia fondamentale il fatto che a scuola si studia ancora per il fine della conoscenza, e non per quello del vil danaro.
Quando studi per i soldi, studi soltanto le cose che sono più remunerative; le studi meglio, a scapito di quelle che ti danno un’apertura mentale.
In aggiunta, se l’obiettivo è fare soldi, prima finisci la scuola e prima vai a produrre.
Riporto poi una cosa che ho sentito da più parti in merito alla Bocconi: forte della propria fama, da un certo anno in poi (non mi ricordo quale) per aumentare il numero degli iscritti (e quindi delle entrate e dei contributi statali), hanno abbassato la qualità degli esami; nell’immediato ha funzionato, ma sul lungo termine ha penalizzato l’ateneo; conosco personalmente più persone che non vogliono laureati in Bocconi da quell’anno in poi.
Un altro riferimento interessante può essere quello della retromarcia fatta dalla Gelmini e dall’università sulla laurea breve.
La ragione, a parer mio, è semplice: se l’esperienza ha insegnato che per apprendere quanto necessario in varie discipline richiede corsi di studi di 4, 5, ed anche 6 anni, oltre ai successivi anni di dottorato, significa che non è possibile farlo in meno anni; la laurea breve è un escamotage all’italiana per aumentare il numero di laureati rispetto alle medie pietose che abbiamo nei confronti del resto dell’Europa.
Come si dice … anche per fare il mondo ci sono voluti 7 giorni …
Resta sempre ignorato, invece (tipico all’italiana) il problema fondamentale, che è quello di dare delle reali prospettive di lavoro a chi ha studiato.
Ed aggiungo una cosa che per me è fondamentale: nell’economia globale, l’Italia non ha speranze nei lavori ‘di quantità’: il costo della mano d’opera da noi è improponibile, e non abbiamo produzioni in quantitativi su scala mondiale (agricoltura, materie prime, catene di montaggio …).
L’Italia è piccola, ma ha due grandi cose: il turismo e la testa degli italiani.
Invece che fare concorrenza ai cinesi nella produzione delle scarpe, dovremmo puntare all’eccellenza, ad inventare e realizzare le tecnologie del domani, quelle che poi tutto il mondo verrà da noi a comperare.
E le scarpe le compereremo dai cinesi.
Ma per fare questo occorre elevare il percorso degli studi e la professionalità delle persone, invece che abbreviare il percorso facendo credere a tutti di essere dei luminari perché hanno potuto appendere un pezzo di carta alla parete …
Può un computer possedere del denaro? lunedì 10 maggio 2010
Posted by andy in Internet e società, pensieri, tecnologia.add a comment
6 maggio 2010, ore 2:47 P.M. ora locale: un banale errore umano (una lettera digitata al posto di un’altra) fa precipitare di 1.000 punti l’indice azionario di Wall Street.
Il problema ovviamente non è stato tanto quello del singolo errore, quanto quello della reazione a catena dovuta alle conseguenti elaborazioni automatiche e relative rapidissime sequenze di acquisti e vendite basate sulle proiezioni fatte dai sofisticatissimi algoritmi di previsione finanziaria.
E questo ha finalmente portato sulle prime pagine un problema: quanto si può delegare nella gestione finanziaria ad un computer (o meglio ai suoi algoritmi)?
Ma questo, se vogliamo, è un problema terra terra; un problema più sottile, invece, che già molti si pongono da almeno due o tre lustri, è il seguente: può un computer possedere del denaro?
Ma veniamo ora ad un esempio pratico, su cui iniziare a ragionare; lungi da me l’idea di dare una risposta definitiva, voglio dare invece a tutti uno spunto per ragionarci su un po’.
Ed ecco il semplice scenario:
- l’esempio prevede tre attori: un mero fornitore di tecnologia (ASP), un investitore, ed un intermediatore finanziario;
- l’intermediatore finanziario si trova all’interno di una stanza senza vetri (attenzione! Non è la scatola del gatto di Schrödinger! :-), con due feritoie per inserire ed estrarre soldi;
- il provider fornisce il servizio in cambio di un canone fisso mensile (senza percentuali sulle transazioni – per la corrente, la connettività ed i panini del bar);
- l’investitore inserisce soldi in una fessura della stanza, e da questa ritira il capitale con gli interessi, fissi, stabiliti inizialmente;
- l’investitore e il provider non possono sapere se nella stanza ci sia una persona o un computer;
- l’intermediatore finanziario, dentro la stanza, investe ed aumenta il capitale;
Supponiamo ora che l’intermediatore sia un professionista in grado di garantire l’interesse del 10% sulla somma che gli date da investire.
Supponiamo anche che questa persona sia in realtà così brava da essere capace di portare a casa più del 10%, diciamo il 15%, tanto per fare un numero.
Voi gli date 100 Sesterzi da investire, e questa persona, correttamente, ve ne restituisce 110.
Ma se questa persona ha fatto ciò che sa fare, in realtà ha incassato 115 Sesterzi, e quindi ha potuto trattenerne 5.
Che voi lo sappiate o meno, non conta: lui ha rispettato i patti; il 10% vi aveva promesso, ed il 10% vi ha fatto guadagnare.
Nessuno può mettere in dubbio che il 5% in eccesso sia di proprietà di questa persona.
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Ed ora viene il bello: ecco il quesito.
E se questa persona fosse in realtà un computer?
Può un computer possedere dei soldi?
Qualcuno potrebbe eccepire che un computer non può possedere denaro, perché non saprebbe cosa farsene.
Ma la questione proposta è diversa: se i diversi attori che interagiscono con un computer che investe denaro non hanno titolo per ‘mettere le mani’ sul denaro prodotto, si può ritenere che questo sia nelle disponibilità / proprietà del computer che lo ha realizzato?
In sintesi: data all’investitore la percentuale dovuta, e pagato il canone di funzionamento al provider (corrente, connettività, manutenzione, etc.), il delta di denaro rimanente di chi è?
Inoltre il computer può sapere cosa farsene: se è stato programmato per fare investimenti, continuerà ad investire il denaro che ‘ha in pancia’, producendo (ci si augura!) altro denaro.
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Qualcun altro potrebbe eccepire che non è possibile che l’intermediatore garantisca un interesse fisso, e che il provider o l’investitore dovrebbero ricevere anche il surplus di interessi; ma questo sarebbe vero se partecipassero anche al rischio: nel caso l’intermediatore non riuscisse a garantire l’interesse promesso, dovrebbe avere il diritto di non rispettare l’impegno preso garantendo un interesse fisso (oneri ed onori).
Ed in ogni caso questa considerazione esula dall’esempio proposto.
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Mi riferiscono di una puntata di Ghost in the Shell SAC in cui gli algoritmi di un trader continuavano a fare soldi anche dopo che lui era morto. C`era una battuta simile a questa: “Gli uffici legali avranno di che lavorare, chissà se un algoritmo può ereditare del denaro“.
In realtà i primi accenni alla questione sono vecchi di almeno dieci o quindici anni; nonostante gli anni trascorsi, il problema risulta essere non solo ancora aperto, ma più attuale che mai.
L’errore dietro alle “quote rosa” sabato 23 gennaio 2010
Posted by andy in Miglioramento, pensieri, vita quotidiana.Tags: parità tra i sessi, penalizzazione per le donne, quote rosa, Svezia, uguaglianza tra i sessi
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Tempo fa sono capitato su una notizia (qui su La Repubblica) che mi ha confermato un’idea che ho già da parecchio tempo.
Le cosiddette ‘quote rosa’ (le pari opportunità garantite alle donne riservando un numero definito a priori di posti in una particolare istituzione) sono uno sbaglio ed un’offesa al gentil sesso.
Pur non avendo difficoltà ad apprezzare lo spirito soggiacente all’idea, che cerca di ristabilire un equilibrio in un mondo controllato, per varie ragioni, dal sesso maschile, continuo ad avere delle notevoli perplessità sul modo.
Ma veniamo alla notizia: in Svezia, per equità, sono garantiti alle donne il 50% dei posti disponibili alle donne, ma (e qui sta la vera notizia) l’altro 50% è invece garantito agli uomini.
Ebbene, le donne hanno scoperto che vi sono delle professioni in cui il proprio sesso prevale, per numero e competenza, rispetto a quello maschile, e si sono trovate penalizzate, dovendo lasciare il 50% dei posti disponibili ad uomini anche meno qualificati di loro.
In sostanza, si è scoperto che una legge fatta nell’interesse delle donne in realtà in particolari contesti può divenire per loro penalizzante.
Ma qual’è il vero problema alla base di tutto questo? A parere mio si tratta di una confusione di termini.
Da troppi anni la gente fa una sostanziale confusione tra uguaglianza e parità tra i sessi.
Mentre è doveroso dover riconosce la parità di diritti tra i sessi, è altrettanto importante capire che questi non sonno uguali, e non lo possono essere neppure se lo vuole la legge.
Uomini e donne sono sostanzialmente diversi nella propria natura, sia fisicamente che psicologicamente ed attitudinalmente (ovviamente parlando in senso generale e non assoluto).
È inconfutabile che vi sono discipline, arti e mestieri in cui eccellono principalmente uomini, ed altri in cui eccellono le donne.
Questo fatto non significa che un sesso sia migliore dell’altro: significa soltanto che la Natura ci ha diversificati, rendendoci complementari.
Dal punto di vista normativo, si conferma che garantire un posto per ‘diritto divino‘ (la legge), invece che per merito porta a penalizzare i più meritevoli.
Dal punto di vista pratico, le leggi sulle quote rosa sono, a parer mio, una soluzione temporanea ormai superata al problema; forse iniziano ad essere maturi i tempi e la consapevolezza per rivedere le norme, sostituendo le quote rosa con regole e criteri più onesti per premiare il merito, criteri che devono essere realmente imparziali rispetto al sesso.
relazione tra consumismo e tempo lunedì 18 maggio 2009
Posted by andy in Etica, pensieri, vita quotidiana.Tags: consumismo, valore del tempo libero
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Sono reduce da un recente viaggio negli Stati Uniti …
Era da tempo che non passavo da quelle parti, e forse per il fatto che lì non è cambiato nulla, mentre in Europa si va consolidando sempre più una cultura del riutilizzo e del riciclo dei rifiuti, mi sono trovato a chiedermi il perché del consumismo.
Il consumismo è, almeno in parte, una conseguenza diretta dell’incredibile disponibilità di beni, e quindi, in fin dei conti, del benessere.
In qualche modo è anche conseguenza del capitalismo, e del modo in cui le aziende tendono a promuovere le proprie vendite rendendo anticompetitivo il riparare i beni piuttosto che eliminarli e sostituirli con altri nuovi.
Qual’è il reale beneficio del consumismo, quell’aspetto che ci fa accettare montagne di rifiuti, e di spendere denaro per ricomprare beni che già possediamo?
Non intendo parlare della semplice comodità di non doversi preoccupare di conservare con cura i nostri beni, o di farli riparare quando necessario: questa è solo la superficie delle cose, un effetto.
In realtà, cosa comperiamo quando facciamo del consumismo? In effetti, comperiamo il nostro tempo.
Ma il nostro tempo vale veramente lo spreco che facciamo?
Riusciamo a dare al tempo che recuperiamo un valore ed un significato superiori a quello dell’oggetto eliminato?
È una risposta difficile da darsi, ma credo che in poche occasioni si possa essere realmente convinti di aver impiegato il nostro tempo in modo così proficuo o utile da giustificare lo spreco.
Paesi come Cuba, ove la disponibilità di risorse e beni è infinitesima rispetto alla nostra, ed ancor più rispetto a quella americana, hanno una scala di valori diversa.
I beni hanno un valore diverso in rapporto al valore del tempo, e così vengono trattati bene, riparati e trattati con cura, perché v’è ben scarsa possibilità di sostituirli, qualora divengano inservibili.
E così noi europei ci troviamo nel mezzo di una scala di valori, in una fase di ritorno verso il valore del tempo e delle cose, dopo che il boom economico che ci aveva insegnato a buttare e ricomprare tutto.
Tutto sommato, siamo nella posizione migliore: abbiamo esperito ambo le opportunità, e stiamo formulando la nostra scelta.
I paesi poveri non hanno ancora avuto modo di conoscere le opportunità del consumismo, mentre gli Stati Uniti non si sono ancora trovati costretti ad affrontare il problema.
A noi, forse, la responsabilità di trasmettere al mondo una cultura di valori più profondi, che porti anche con sé i germogli di un’economia più sana.
Ogni paese ha il governo che si merita venerdì 27 marzo 2009
Posted by andy in pensieri.Tags: dittatura, ignavia del popolo, oligarchia
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Se fate un sondaggio (indipendente) scoprirete che a quanto pare nessuno ha votato i nostri governanti.
Eppure i voti li hanno presi, e sono li.
Ora ci troviamo in questa situazione:
- non possiamo esprimere la preferenza: decidono loro;
- non esiste più la sinistra;
- non esiste più la destra;
- esiste un solo colossale partito di centro, che controlla tutta l’informazione nazionale, e che ha l’appoggio anche delle regioni che maggiormente campano di finanziamenti pubblici ed europei.
Da bravo italiano mi lamento, anche se tengo a precisare che ci sono una serie di persone al governo che stimo profondamente ed a cui darei volentieri la preferenza nominativa.
Vista la grande possibilità di scelta che ci hanno lasciato, sembra che l’unica opportunità che rimane per dare un segnale forte sia quella di andare a votare, ed annullare la propria scheda.
Senza voti, nessuno può arrogarsi il diritto di tenersi una poltrona.
Credo che dopo un segnale del genere emergerebbero le figure che realmente vogliono dare un futuro alla nazione, e non soltanto a sé stessi.
Comunque siamo in Italia, ed anche questa volta non cambierà nulla, in doveroso rispetto della volontà degli elettori.