Cyber-ignoranza, Sensazionalismo e Caccia alle Streghe mercoledì 4 agosto 2021
Posted by andy in Information Security, Pubblica Amministrazione.Tags: caccia alle streghe, data breach, Disinformazione, gestione del rischio, ignoranza, regione lazio, risk management
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È di questi giorni l’attacco ai sistemi informatici della Regione Lazio.
Al momento il sito della Regione Lazio è irraggiungibile, ed il sito del Garante è estremamente riservato sulle notizie.
Come sempre accade in queste situazioni, la stampa è prodiga di titoloni ed ipotesi spacciate per verità, basate su voci di corridoio, ipotesi, congetture.
La conseguenza immediata è che i lettori si scatenano a loro volta in thread di post e flames sulle responsabilità, su cosa doveva essere fatto e non è stato fatto, sull’incompetenza di questo o quell’operatore …
È bello vedere che finalmente l’Italia è attenta alla sicurezza delle informazioni, disponendo di circa 59 milioni di esperti, inclusi gli infanti.
L’attacco è andato a buon fine, ma senza il completamento delle indagini non ci è dato sapere (eccetto che ai pochi che stanno gestendo l’incidente) se sia stato dovuto ad inadeguatezza delle risorse poste a difesa dei sistemi o per superiorità di risorse messe in campo dal nemico.
Detto ciò, mi permetto di chiedere a tutti coloro che in questi giorni stanno facendo affermazioni sulle cause e sulle responsabilità se abbiano un antivirus sul proprio smartphone, se abbiano mai comunicato una propria password a qualcuno, se veramente non abbiano mai click’ato su un link di cui non erano assolutamente certi dell’affidabilità, se abbiano un backup dei propri dati in un proprio caveau diverso dal proprio PC o smartphone o cloud di turno, e così via …
Indipendentemente da quale sia stata la vulnerabilità sfruttata in questo incidente, è fondamentale rammentare a tutti che la più grave vulnerabilità e principale causa di incidenti informatici resta sempre l’essere umano.
Ed in Italia abbiamo più esseri umani che server …
Inviterei poi tutti coloro che sputano sentenze dal proprio pulpito (anche se socialmente virtuale) come si comportino sul proprio luogo di lavoro, con i computer ed i programmi della propria azienda o pubblica amministrazione …
Da bravi italiani siamo sempre bravi a lamentarci (… una palanca in meno, ma diritto di mugugno …) concentrandoci sugli effetti, e mai sulle cause.
Perché tutti coloro che si lamentano non iniziano per primi a gestire in sicurezza i propri dati e quelli dell’azienda o dell’amministrazione per cui lavorano, senza lamentarsi della seccatura della lunghezza della password che deve essere cambiata troppo spesso?
Perché queste persone non smettono di chat’are di lavoro attraverso canali non sicuri ed iniziano ad utilizzare programmi che cifrano realmente le comunicazioni, anche se non sono quelli di moda e che hanno l’icona più bella?
Perché queste persone non iniziano a leggersi le condizioni di servizio e le politiche per la privacy di ogni programma ed ogni sito che visitano?
Ah, già! Costa tempo e fatica …!
Peccato che dietro la nostra pigrizia individuale ci siano anche i dati degli abitanti della Regione Lazio, le buste paga dei colleghi, il fascicolo medico di qualcuno che l’anno prossimo pagherà un premio più alto sulla propria assicurazione sulla vita, senza capire perché …
Nota: ho già avuto modo di avere riscontri su queste mie considerazioni, ed ho rilevato che in molti cercano di correlare quanto ho scritto alle specificità dell’incidente della Regione Lazio, non ritenendolo pertinente nella ricerca delle responsabilità.
Approfitto quindi per chiarire subito che il tema del mio commento non è quello delle responsabilità del personale preposto a gestire la sicurezza.
Intendo invece evidenziare che in queste situazioni troppe persone si lanciano nella caccia al colpevole, molto spesso senza competenze specifiche, e certamente senza informazioni reali, oggettive, aggiornate e complete su ciò che è accaduto.
L’analisi dell’accaduto e le indagini sulle responsabilità sono operazioni estremamente complesse, che non richiedono minuti od ore, ed i cui risultati dipendono sia dalla comprensione di cosa è accaduto sia da dalle azioni messe o meno in campo, in relazione all’analisi dei rischi effettuata ed alle risorse che è stato possibile mettere a disposizione per gestirli.
L’App di Google ed Apple per il Contact Tracing Covid-19 venerdì 8 Maggio 2020
Posted by andy in Information Security, Internet e società, privacy, tecnologia, Uncategorized.Tags: app, Apple, concact tracing, Coronavirus, COVID-19, geolocalizzazione, Google, monopolio, privacy, privatizzazione dei dati sanitari
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Google ed Apple sono sempre in prima linea per aiutare gli utenti, rigorosamente gratis perché, come è noto, sono sono organizzazioni no-profit di beneficenza.
Ed anche con l’emergenza CoronaVirus non hanno perso tempo, e (pur essendo concorrenti) sono riuscite a mettersi d’accordo in un instante su uno standard di interoperabilità per realizzare un’app di contact tracing per tracciare i contatti da CoronaVirus.
Occorre intanto fare una precisazione: Android (Google) ed iOS (Apple) si spartiscono praticamente la totalità del mercato mondiale dei dispositivi mobili (circa i tre quarti del mercato per Android, un quarto per iOS, ed un misero 1% ad altri sistemi operativi).
E veniamo agli aspetti inerenti la privacy, tanto cari alle persone (che su FaceBook, WhatsApp, Instagram, etc. raccontano ogni istante della propria vita, cosa fanno, dove sono, i propri pensieri ed i propri gusti e le proprie preferenze).
In nessun caso le app prescelte potranno raccogliere informazioni sulla geolocalizzazione dei soggetti: ciò significa che chi gestirà i sistemi di raccolta e correlazione delle informazioni non avrà accesso a tale informazione.
È invece vero che Google ed Apple conosceranno tutti gli utenti che hanno installato l’app (per poterla installare occorre un account Google / Apple), e la loro posizione (come pensate che queste aziende possano conoscere in ogni istante lo stato del traffico di ogni strada del pianeta ed offrirvi informazioni pertinenti alla vostra posizione?).
Devo deludere coloro che pensano che la geolocalizzazione di un dispositivo si possa fare soltanto mediante il GPS: può essere fatta in vari altri modi che, se usati in combinazione, possono aumentare la precisione ottenuta con un singolo approccio; è possibile geolocalizzare un dispositivo mediante la celle telefoniche a cui si aggancia, le reti Wi-Fi a cui si connette, il suo indirizzo IP, nonché eventuali connessioni Bluetooth.
Esistono poi altri attori ‘trasversali’, che si possono inserire nel mezzo, tra l’app e Google/Apple: tanto per non fare nomi, scegliamo un produttore a caso: Xiaomi (altrettanto vale per altri produttori, in relazione alla loro aggressività commerciale).
Chi ha acquistato uno smartphone Xiaomi avrà certamente notato che ogni app preinstallata sul dispositivo chiede l’accettazione della politica per la privacy di Xiaomi (che naturalmente l’utente legge per filo e per segno fino all’ultima riga!) e di concedere a tali app un mare di autorizzazioni.
Grazie a tali autorizzazioni il vostro smartphone invierà al produttore un mare di informazioni, ed anche se qualche informazione non viene inviata oggi, potrà essere inviata dopo il prossimo aggiornamento delle app (ad esempio, quali app sono installate, quali dispositivi Bluetooth vengono incrociati, la vostra posizione, etc.).
Passiamo ad un’altra considerazione: Google ed Apple si sono affrettate provveduto a sviluppare e rendere disponibili le librerie software che servono per sviluppare le applicazioni, fornendo anche esempi di codice, per facilitare il lavoro degli sviluppatori.
La disponibilità di queste librerie implica che le applicazioni di tracciamento utilizzeranno software e servizi sviluppati da altri, su cui non vi è controllo, e addirittura, per la legge sulla protezione della proprietà di ingegno, è vietato ed è un reato effettuare il reverse engineering del codice per capire cosa effettivamente faccia …
Quindi, anche se chi sviluppa l’applicazione ed il servizio che riceverà i dati non potranno raccogliere informazioni sull’identità e sulla geolocalizzazione dell’app e dell’utente, questo non è necessariamente vero per Google ed Apple, che in ogni istante dispongono dell’identità del dispositivo e dell’utente che lo utilizza (oltre ad un mare di altre informazioni – si veda sopra).
L’idea poi che il memorizzare le informazioni soltanto localmente sul dispositivo dell’utente serva a garantire la privacy, in realtà serve soltanto a non rendere disponibile centralmente ai governi l’informazione, mentre Google ed Apple (almeno per i propri ecosistemi) già la possiedono, grazie al fatto che grazie alla geolocalizzazione ed alle reti di contatti già possedute possono sapere chi è stato vicino a chi (non stupitevi: già anni fa FaceBook inferiva conoscenze tra persone grazie al ripetersi di situazioni in cui due o più persone con account FB si trovassero nel medesimo luogo nello stesso momento …).
Se poi il sistema centrale che raccoglie le informazioni delle app è il loro, e non uno predisposto ad hoc da ogni governo, ci si rende conto che Google ed Apple disporranno (come società private) di una mappa mondiale dei possibili contagi mentre i singoli governi potranno accedere probabilmente soltanto ad un sottoinsieme di tali informazioni.
E questo potrebbe spiegare la fretta con cui questi due colossi, pur essendo concorrenti, si sono messi d’accordo: sapere chi è potenzialmente infetto (o lo è stato) e chi è potenzialmente interessato a vaccini e farmaci per la cura dell’infezione rappresenta un mercato praticamente infinito per le case farmaceutiche.
Utilizzi ancora peggiori di queste informazioni possono includere l’ostracizzazione di persone risultate positive, la discriminazione nell’accesso ad aziende o territori, o anche nella selezione del personale da parte delle aziende.
Inoltre, mentre gli Stati si impongono dei termini per la conservazione di queste informazioni, chi potrà mai andare a controllare se Google ed Apple le distruggeranno veramente, e quando?
Ed in conclusione, visto che queste considerazioni le può fare qualsiasi cittadino, ritengo che il problema meriti un serio approfondimento da parte del Garante per la Privacy, tenendo conto che è in ballo una questione di trattamento di dati personali e sanitari.
Qualche riferimento:
Il SW, lo Stato e l’Esportazione in USA delle Tasse dei Cittadini venerdì 1 Maggio 2020
Posted by andy in FLOSS, Information Security, Miglioramento, Pubblica Amministrazione, tecnologia.Tags: AgID, CAD, CAD - Codice per l'Amministrazione Digitale, FLOSS, open source, PA, pubblica amministrazione, riduzione dei costi, riduzione delle tasse, software, software libero, SW
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Premessa
Penso che siano pochi (sempre che esistano!) i paesi in cui tutti i contribuenti siano felici di pagare le tasse nella misura in cui le pagano: sorgono sempre dubbi sulle capacità dello Stato di spendere al meglio le risorse raccolte.
Con questo mio pensiero provo a sollevare anch’io qualche dubbio, proponendo naturalmente anche una soluzione (mai lamentarsi se non si ha qualcosa di meglio da proporre!).
Mi concentrerò in questo post su come vengano spesi i soldi per l’acquisto di software commerciale da parte della PA, suggerendo delle ipotesi per impiegare meglio almeno parte di tali fondi.
Una stima della spesa per il SW da parte della PA
Prendiamo il tema degli acquisiti di software commerciale da parte della Pubblica Amministrazione, dove la parte dei leoni la fanno sempre i soliti grandi nomi (Microsoft, Oracle, VMware, Adobe, etc.)
Escludo quindi qualsiasi software ‘custom’ sviluppato ad hoc per la PA, nonché qualsiasi servizio di assistenza, configurazione, etc.
Al paragrafo 3.2.3 (La spesa ICT per macrovoci hardware e software, pag. 32) della relazione di AgID sulla spesa ICT nella PA italiana, possiamo osservare che la spesa effettiva dal 2016 in poi, e previsionale per il 2019, è sempre stata superiore ai 700 milioni di Euro (addirittura 850 nel 2018).
Stiamo parlando di circa 12 Euro per cittadino italiano (inclusi infanti e pensionati) e di circa 64 Euro per ogni contribuente (escludendo quindi infanti, pensionati, persone con reddito minimo non soggetto a tassazione, disoccupati, etc.).
Dove vanno a finire tutti questi soldi? nella maggioranza dei casi, negli Stati Uniti.
È davvero necessario esportare tutti questi capitali, impoverendo lo Stato ed i contribuenti?
A cosa serve tutto questo SW?
Intanto chiediamoci a cosa serve tutto questo software di cui acquistiamo licenze d’uso.
In generale, possiamo suddividere tutto questo software in tre categorie principali:
- software ‘server side’, ovverosia sistemi di virtualizzazione (VMware, …), sistemi operativi server (Microsoft, e parzialmente RedHat, ora IBM), e motori di database (Oracle, Sybase, …);
- sistemi operativi lato client (Microsoft);
- software di office automation e programmi di utilità (Office, Skype, Teams della Microsoft, Acrobat Pro della Adobe, etc.)
È importante anche chiederci cosa effettivamente acquistiamo: si tratta di licenze d’uso, e non della proprietà dei prodotti: acquistiamo quindi la sola possibilità di utilizzare un prodotto, sottostando alle condizioni commerciali imposte dai fornitori.
Una stima della spesa per il SW da Parte della PA
Ho provato a cercare il numero di dipendenti pubblici in Italia, ed ho trovato varie stime, più o meno aggiornate, ma il numero supera sempre i 3.000.000 di persone.
Non so se quella che vado a fare sia una stima corretta, ma nell’era dell’informatizzazione ipotizzerò che circa 1.000.000 utilizzi un computer per svolgere almeno parte delle proprie attività; tenendo conto dei numeri dei ministeri, oltre a quelli delle regioni e dei comuni, credo che la stima possa essere considerata ragionevole.
Naturalmente non dispongo dei numeri effettivamente contrattati dalla PA, ma sono stime ragionevoli quelle di 84$/anno per Windows 10 Enterprise (volume licensing), mentre al dettaglio Office 2019 Professional viene 440$: farò una stima di 116$/anno con una licenza analoga a quella di Windows (tanto per fare una cifra tonda di 200$/anno).
Il tutto senza contare che molto spesso i computer vengono acquistati già dotati di una licenza Microsoft, a cui occorre aggiungere quella ministeriale acquistata nei contratti quadro tra PA e fornitore
L’importo non è esatto, ma certamente non si discosta molto dalla realtà; in ogni caso, se così fosse, 1.000.000 PC x 200$ / anno = 200 milioni di dollari all’anno per Microsoft.
Se ad ogni utente viene dato un PC con Windows ed Office, ed ipotizzando che CONSIP sia riuscita ad ottenere mediamente dei prezzi di mercato, una postazione di lavoro viene a costare, come software di base, circa 200$/anno – si vadano i conti precedenti.
Non entro nel merito dell’hardware, che purtroppo in alcuni contesti non viene aggiornato in relazione alle esigenze degli utenti, ma troppo spesso viene sostituito troppo presto nonostante la possibilità di funzionare egregiamente ancora per anni.
Le licenze server di Microsoft vengono al dettaglio circa 1.000$ / processore – ipotizziamo che per la PA vengano soltanto 600$/processore, che ripartite su un periodo di 3 anni fanno 200$/anno/processore.
Quanti server e quanti microprocessori avrà la PA? Ipotizziamo (e sto facendo l’ottimista) 10.000 server e 2 core ciascuno, per un totale di 20.000 core, e quindi 20.000 core x 200$/core/anno = 4.000.000$/anno.
Veniamo ora alla virtualizzazione: quante saranno le istanze di virtualizzazione attive in Italia? Al momento non sono riuscito a reperire (e penso che sia impossibile) un numero certo.
Utilizzerò come stima il valore di una istanza ogni 10 server, che dovrebbe ottimisticamente mediare tra le installazioni con un più elevato livello di consolidamento dei server e quelli ancora non virtualizzati (senza contare tutte le installazioni di disaster recovery, che di fatto raddoppiano il numero di istanze e quindi di licenze).
La licenza per un’istanza con il servizio di assistenza e supporto per tre anni viene circa 3.000€/anno, per un totale di circa 10.000 server / 10 x 3.000€/anno = 3.000.000€/anno.
E poi ci sono Oracle, RedHat ed altri software server side di produzione, con i relativi contratti di assistenza e supporto business.
Per Oracle, ipotizzando anche soltanto 1.000 installazioni in tutta Italia (in generale su sistemi con un discreto numero di processori), ipotizzando anche soltanto 10.000$/processore/anno e 4 processori/server, troviamo 1.000 x 4 x 10.000$/anno = 40.000.000$/anno.
Ed in quanto sopra riportato non sono stati conteggiati tutti i pacchetti e moduli software aggiuntivi per l’amministrazione, il monitoraggio, l’integrazione, l’alta affidabilità, etc. etc. etc.
Come potete vedere, facendo dei conti assolutamente conservativi, emergono rapidamente le centinaia di milioni di Euro all’anno, che regolarmente vengono trasferiti negli States.
Tutto questo software commerciale è realmente indispensabile?
Chiediamoci ora se realmente tutto il software di cui acquistiamo la licenza d’uso sia indispensabile, o se possa essere sostituito da altro più economico.
Per la parte server, esistono due tipi di sistemi: quelli cosiddetti ‘di produzione‘, e quelli di sviluppo, di test, o dedicato ad applicazioni non critiche.
Per la parte client (ovverosia il computer, fisso o portatile) assegnato agli utenti, occorre chiedersi quali siano le attività che vengono principalmente svolte dagli utenti, che sostanzialmente sono:
- consultazione della posta elettronica;
- navigazione su Internet mediante un browser;
- condivisione di file tra utenti;
- office automation (redazione di documenti, gestione dati mediante fogli elettronici, e qualche presentazione …)
- comunicazioni e videoconferenze (questo è vero soprattutto da quando si è iniziato a fare smart working in seguito alla pandemia di Codiv-19).
Naturalmente gli usi sopra descritti sono riferibili soltanto alla grande maggioranza di utenti, e non a quelli che svolgono attività particolari).
È importante ora fare una considerazione: il pianeta (inteso come infrastrutture e servizi informatici) funziona sostanzialmente utilizzando software libero (libero nel senso di open source, e non di gratuito): il fatto che un software sia libero non esclude che si possano pagare servizi di assistenza e supporto:
- Siti web, Google, Facebook utilizzano software libero, come le più grandi aziende al mondo;
- Nella statistica del top 500 supercomputer più potenti al mondo, già dal 2017 tutti utilizzano sistemi operativi liberi;
- Persino Microsoft ha adottato un sistema operativo libero nei propri dispositivi IoT …
- il sistema operativo più utilizzato al mondo, Android, è software libero;
Perché questa considerazione?
Perché la stragrande maggioranza delle esigenze delle aziende e degli utenti possono essere soddisfatte con software libero, sia lato server che lato client.
Ciò che conta, in un ambiente di produzione, non è il ‘possesso’ di un prodotto (o almeno del diritto di utilizzarlo), ma un servizio di supporto che supporti il cliente nella risoluzione dei problemi che si presentano (e naturalmente di una consulenza per progettare e far evolvere i propri sistemi informativi).
Se leggete le condizioni di licenza dei diversi prodotti commerciali citati, noterete che sono previsti due tipi di importi da pagare: uno (obbligatorio) per acquisire il diritto di utilizzare il prodotto (alle condizioni imposte dal produttore), e l’altro (facoltativo) per avere il diritto di chiamare qualcuno chiedendo aiuto se qualcosa va storto …
Ecco, il software libero vi libera dalla prima voce, lasciandovi naturalmente la libertà di decidere se pagare un servizio di supporto o no per le applicazioni che ritenete più critiche.
Un aspetto interessante è che mentre nel caso di software proprietario, sia il costo della licenza che quello per i contratti di supporto vanno al produttore, nel caso di software libero avete (appunto!) la libertà di rivolgervi a chiunque riteniate sufficientemente qualificato per gestire i vostri potenziali problemi.
Un altro aspetto, fondamentale, che differenzia il software libero da quello proprietario, è la sua apertura: non è possibile trovarsi in situazioni di ‘lock-in’, ovverosia di essere costretti a mantenere un prodotto o un fornitore, perché le modalità in cui il produttore ha implementato alcune funzioni rende il prodotto incompatibile o non interoperabile con altri prodotti, liberi o di altre parti (limitando persino la possibilità di sviluppare in house del software di adattamento).
E concludo questo paragrafo sintetizzando il fatto che non è indispensabile utilizzare software proprietario: naturalmente esistono prodotti commerciali che sono migliori di prodotti liberi (così come è vero il contrario!); per applicazioni specifiche, in cui si ritiene che un prodotto commerciale sia più appropriato, è corretto selezionarlo ed utilizzarlo.
Ma ciò non è vero nella stragrande maggioranza dei casi.
Sicurezza nazionale
A parte ogni considerazione sugli aspetti economici, è da considerare anche l’aspetto della sicurezza nazionale; infatti come può lo Stato essere certo che non vi siano backdoor all’interno del software acquistato (anzi: licenziato) e che non vi siano meccanismi che possono consentire a ‘qualcuno’ di bloccare il funzionamento del software?
Di fatto il solo meccanismo dell’attivazione del software è un meccanismo simile: se il software non viene riconosciuto come valido dalla casa produttrice (o da un suo sistema installato nelle reti aziendali), il software smette di funzionare.
E c’è di peggio: l’utilizzo sconsiderato che si è recentemente iniziato a fare in occasione dello smart working di tecnologie quali Skype, Teams, WebEx, GSuite, Google Drive, OneDrive, (Dropbox?), ha di fatto messo in mano ad aziende private statunitensi una quantità smodata di documenti e conversazioni riservate ad ogni livello istituzionale.
C’è qualcuno che ha fatto un’analisi dei rischi? Ritengo di no, altrimenti si sarebbero prese altre strade da molto tempo.
Adozione del software libero nella PA
Con il CAD, la PA si è imposta delle regole finalizzare a razionalizzare la spesa e ridurre gli sprechi (e, perché no? anche l’impoverimento dello Stato con esportazione continua di capitali all’estero), imponendo la predilezione del software libero, a meno di motivatissime e documentate ragioni.
Ulteriore aspetto fondamentale è che la PA si è imposta l’obbligo dell’adozione di standard aperti, che garantiscono l’interoperabilità tra piattaforme di qualsiasi tipo: ciò di fatto esclude ogni software proprietario che implementa funzioni, o formati di dati, o protocolli, non interoperabili con le omologhe implementate mediante standard aperti.
Quanto sopra porta al fatto che la PA deve utilizzare soltanto software libero, a meno di specifiche e giustificate ragioni, e che qualsiasi software sviluppato per la PA deve conformarsi soltanto a standard aperti (per i formati dei dati, dei file, per i protocolli di comunicazione, etc.), e deve essere rilasciato sotto licenza libera.
Limiti e problemi nell’adozione del software libero nella PA
Quanto esposto al punto precedente è un ideale (speriamo che non sia un’utopia).
Cosa limita la PA nel rispetto del CAD che essa stessa si è data?
Le ragioni sono tante, e non penso di riuscire ad identificarle tutte in questo post; tuttavia, tra le tante, vediamo:
- mancanza di informazione: se ogni dipendente statale venisse informato sul costo del software che pretende di utilizzare al posto di quello libero, e di quanto soldi ogni anno gli vengono trattenuti sullo stipendio per le tasse, probabilmente accetterebbe più favorevolmente l’evoluzione;
- disinformazione diffusa: troppo spesso gira la voce che il software libero non è all’altezza di quello libero, ma se gli utenti sapessero che i propri smartphone utilizzano software libero, così come FaceBook, Google ed il proprio router Internet di casa, probabilmente proverebbero a considerare la cosa con maggior obiettività;
- direttori e dirigenti non sufficientemente competenti, responsabili e motivati, che spesso vedono in queste attività soltanto la fatica immediata, le seccature derivanti nel breve termine, e qualche responsabilità da assumersi con scelte a volte non comode;
- mancanza di adeguate competenze di committenti e responsabili di sistema, e dell’eventuale supporto specialistico, senza le quali non è possibile preparare adeguati capitolati e specifiche di collaudo;
- … e (perché no?) potenziali interessi (visti i numeri in gioco) che esulano da quelli dello Stato (come si dice, a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca …).
Cosa si può (e lo Stato dovrebbe) fare …
Premetto che so che lo Stato ha tempi lunghi, ed il CAD lo dimostra: è del 2005, ma a distanza di 15 anni ancora il software e le comunicazioni sono in mano agli Stati Uniti (si colga ora l’occasione per rileggere il paragrafo sulla sicurezza nazionale …).
Cosa si potrebbe fare? occorre agire almeno sui seguenti fronti:
- tecnico / legale: predisporre specifici allegati standard, sia tecnici che legali, che devono essere acclusi ad ogni bando di gara per forniture software, chiarendo quali sono gli standard (aperti!) adottati dalla PA e quali sono le modalità standard per l’interoperazione e collaborazione tra sistemi; tali documenti devono definire anche in modo chiaro e formale come devono essere predisposte le specifiche di collaudo ed accettazione, in modo da evitare situazioni in cui la PA è costretta ad accettare delle forniture inadeguate perché i requisiti progettuali sono stati prodotti da persone non competenti o senza cognizione della destinazione d’uso del prodotto da realizzare;
- formazione delle stazioni appaltanti: è indispensabile formare e fornire gli strumenti alle stazioni appaltanti per verificare la conformità normativa delle richieste di acquisto per software commerciale e per lo sviluppo di software applicativo per la PA;
per il primo, deve esistere la necessaria analisi prevista dal CAD, sottoscritta da una persona competente e responsabile per il progetto da realizzare, e
per il secondo, occorre accludere ai bandi gli allegati standard di cui sopra per tutte le commesse di sviluppo software, in cui sia chiarito che qualunque prodotto che non si conformi a standard aperti, e che non si conformi alle architetture ed ai requisiti standard definite dalla PA non potrà essere collaudato né accettato; - client: questa è la nota dolente: l’utente finale è estremamente refrattario ai cambiamenti; tuttavia piattaforme client non standard lasciano aperta la strada ai fornitori per lo sviluppo e la fornitura di sistemi che mantengono il lock-in del cliente; occorre pertanto fare un censimento incrociato delle applicazioni utilizzate e degli utenti che le utilizzano (non tutti usano tutto), ed iniziare a riconfigurare tutte le postazioni che non hanno requisiti particolari con postazioni basate interamente su software libero;
mano a mano che si procede emergono le applicazioni non standard, per cui la PA dovrà appaltare l’adeguamento), ed il cosiddetto shadow software, ovverosia tutti quei programmi sviluppati autonomamente dagli utenti e dagli Uffici, in mancanza di strumenti previsti e realizzati dall’Amministrazione; per tutti questi occorrerà procedere all’adattamento a software libero (e meglio ancora all’assimilazione del software trasversalmente più utile a livello nazionale), e quindi al conseguente aggiornamento a software libero dei computer degli utenti; - server: pur essendo vero che per alcune applicazioni possono essere necessari prodotti commerciali specifici, ciò non è necessariamente vero per tutte le applicazioni e per tutti i contesti; molte volte viene utilizzato software proprietari (e molto costoso) dove in realtà non vengono utilizzate funzionalità specifiche, ma soltanto quelle standard (penso ad esempio al file management, o al linguaggio SQL per i database); inoltre anche per gli ambienti di sviluppo e prova è spesso possibile utilizzare software libero (penso ad esempio agli ambienti di virtualizzazione, ai sistemi operativi ed ai database).
Esistono inoltre piattaforme di amministrazione e gestione (software libero) che consentono di amministrare e gestire in modo uniforme ambienti e piattaforme liberi e non, così da non richiedere la duplicazione di know-how, competenze e persone per la gestione dei sistemi. - middleware: software legacy, datato, non conforme agli standard e che presuppone l’esistenza di software non standard lato server o, peggio, lato client, deve essere rapidissimamente aggiornato o sostituito, in quanto è un anello chiave nella catena che tiene legato il cliente ai produttori di software proprietario;
- educazione: praticamente in tutte le scuole i docenti utilizzano software proprietario (si legga, Windows e MS Office), privando gli allievi della necessaria informazione per scegliere liberamente, e costringendo i genitori a spendere soldi per acquistare qualcosa che non è necessario (e di questi tempi i soldi non piovono dal cielo …); se poi una famiglia ha più figli, le licenze per il sistema operativo e per la suite di office automation si moltiplicano ….
I genitori stessi non sanno di avere una scelta: lo Stato deve fare informazione. - divulgazione: lo Stato dovrebbe provvedere all’informazione e all’educazione dei cittadini; un semplice spot della Pubblicità Progresso, anche trasmesso non frequentemente, potrebbe iniziare a far girare la voce che esistono delle alternative …
Approccio economico
L’obiettivo di questo mio post non è quello di portare a tagli sconsiderati e ad un risparmio selvaggio: in medio stat virtus, diceva Aristotele (ovviamente lo diceva in greco antico) …
Ritengo che un buon obiettivo potrebbe essere quello di mantenere una spesa di 200 milioni per il software critico o per cui non vi è un’adeguata alternativa libera (e questo include principalmente il software server side).
Dei restanti circa 500 milioni, se ne potrebbero dedicare inizialmente 200 per l’adeguamento e la normalizzazione di tutti gli applicativi non conformi al CAD, ed i 300 rimanenti potrebbero essere ripartiti con un piccolo risparmio per lo Stato (100) ed un investimento (200) in formazione del personale della PA e per la creazione di posti di lavoro per un nuovo ecosistema di persone ed aziende italiane specializzate nel supporto al software libero ed al supporto agli applicativi della PA.
A tendere (nell’arco di 3-4 anni) su può puntare ai soliti 200 milioni per software critico, 250 di risparmi per lo Stato, e 250 di investimenti nell’ecosistema del software libero e delle aziende specializzate nel supporto ed evoluzione dello stesso.
Nel suo piccolo, quest’idea porterebbe ad un risparmi di 1 miliardo di Euro ogni quattro anni, e ad un investimento analogo nella creazione di posti di lavoro.
Conclusioni
L’Italia soffre oggi di un retaggio derivante dal periodo delle ‘vacche grasse’ del boom economico, della lottizzazione politica e degli interessi particolari posti sopra a quelli dello Stato.
L’inerzia delle Istituzioni, la mancanza di competenze e la deresponsabilizzazione ad ogni livello (ed attualmente anche la pandemia Covid-19) hanno portato l’Italia ad accumulare un debito spaventoso.
Non esiste una soluzione unica che possa risolvere questo problema, ma anche un rapido intervento sul risparmio sul software potrebbe portare lo Stato a ridurre il continuo impoverimento dei cittadini mediante esportazione dei capitali, riducendo al contempo le spese, ed investendo almeno parte delle risorse recuperate nella creazione di posti di lavoro.
Riferimenti
- Piano triennale della PA
- La Spesa ICT nella PA italiana (AgID)
- CAD – Codice Amministrazione Digitale (AgID)
- CAD – Codice dell’Amministrazione Digitale (D.Lgs. n. 82 del 7 Marzo 2005)
- portale Open Data della CONSIP
Il GDPR e gli struzzi mercoledì 10 ottobre 2018
Posted by andy in Information Security, privacy.add a comment
Qualche tempo fa mi sono permesso di disturbare il DPO di un’importante università italiana (ed in verità anche il suo Rettore …), la quale utilizza come sistema di posta elettronica di ateneo i servizi di GMail di Google (denominati G Suite).
Ero interessato a sapere quali garanzie avesse l’università rispetto alla profilazione degli utenti (studenti, docenti e personale del campus).
Dopo alcuni giorni ho ricevuto una puntuale risposta, in cui venivo informato che sul tema era stata interpellata la stessa Google, la quale ha fornito tutte le garanzie del caso.
Oltre a riportarmi per completezza i termini del servizio, il DPO ha sintetizzato con una frase l’esito della ricognizione: “I servizi di G Suite (…) non raccolgono o usano informazioni per fini di marketing o per creare profili pubblicitari.”
Volendo leggere con un po’ di attenzione tale frase, ci rendiamo immediatamente conto quindi che essa non esclude quindi che Google faccia profilazione degli utenti (cosa ovviamente certa, visto che è il suo core business), ma che lo scopo della profilazione non è il marketing.
Nei termini di servizio sono riportate accuratamente le procedure in essere per l’autenticazione e l’autorizzazione degli utenti per l’accesso ai dati dei clienti; non si fa invece riferimento ai controlli di accesso destinati a procedure informatizzate.
Confidando naturalmente nella buona fede di Google, si osserva tuttavia che il servizio G Suite non è oggetto di certificazione ISO27001 (non è infatti incluso nello scope di certificazione).
Si osserva invece che in tale scope è incluso Google+, che si è recentemente appurato aver consentito ad applicazioni di terze parti di accedere ai dati di 500.000 utenti, a causa ad un bug,
Non sono inoltre ovviamente disponibili i rapporti di audit delle società di certificazione che assicurano la compliance dei servizi di Google rispetto alle norme di sicurezza di riferimento, per cui il ‘contractor’ non ha modo di sapere quale sia il reale grado di protezione dei dati dei propri utenti.
Ho quindi lasciato al DPO di immaginare quali tipi di profilazione possa fare Google sugli allievi e sul personale di Ateneo, soprattutto se l’utente di G Suite possiede un profilo Google anche al di fuori dell’Università (rendendoli quindi riconciliabili tra loro).
Senza contare le informazioni che vengono veicolate attraverso G Suite su progetti di ricerca, anche riservati e potenzialmente destinati a possibili pubblicazioni e brevetti …
Tenendo conto che i Big Data e la Data Intelligence sono discipline strategiche per il business di oggi e di domani, risulta fondamentale per tutte le aziende ed organizzazioni chiedersi quanto il ‘tutto gratis’ sia veramente un’opportunità, o se sia invece un grande rischio …
Contraccezione e sicurezza ICT mercoledì 9 luglio 2014
Posted by andy in Information Security, Internet e società.add a comment
Dite la verità … non è facile trovare un nesso tra questi due temi …
Dopo aver letto questo articolo forse qualche preoccupazione potrebbe insorgere anche nei vostri pensieri.
Eppure ora è possibile controllare i periodi di fertilità delle donne con un chip wireless sottocutaneo.
È certamente comodo l’utilizzo di un telecomando, ma … se altri lo facessero al nostro posto, in modo trasversale o selettivo?
Quanto può valere la sicurezza o insicurezza di un dispositivo simile?
Pubblicate in G.U. le Regole tecniche: arriva il nuovo “sistema di conservazione” dei documenti informatici sabato 15 marzo 2014
Posted by andy in Information Security, tecnologia.Tags: ciclo di vita delle informazioni, conservazione, dematerializzazione, documento digitale, protezione delle informazioni
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Sono state pubblicate in G.U. le Regole tecniche per il nuovo “sistema di conservazione” dei documenti informatici.
Una delle novità riguarda il concetto di “sistema di conservazione“, che viene definito come un sistema che, in tutto il ciclo di vita del documento, deve assicurarne la conservazione con i metadati a essi associati, tramite l’adozione di regole, procedure e tecnologie idonee a garantirne le caratteristiche di autenticità, integrità, affidabilità, leggibilità e reperibilità.
Non intendo qui entrare nel merito delle caratteristiche di autenticità, integrità, affidabilità e reperibilità, che sono di fatto da anni oggetto degli obblighi derivanti dalla Legge sulla Privacy (d.Lgs. 196/2003), e successive integrazioni e modifiche.
Grazie alla redazione del DPS, tali obblighi hanno in sostanza portato all’attenzione del top management delle aziende ed anche dei professionisti la necessità di gestire la sicurezza delle informazioni in tutto il loro ciclo di vita.
Desidero invece concentrarmi su uno dei termini invece ha delle implicazioni che probabilmente sfuggono ai più: la ‘leggibilità‘.
Supposto che siamo in grado di assicurare una lunga vita al documento informatico, siamo altrettanto in grado di garantirne la sua leggibilità?
Già oggi è estremamente difficile trovare del software che sia in grado di aprire documenti realizzati con le prime versioni di Word, Access, etc. (per non parlare di quelli redatti con i programmi di office automation che giravano prima su DOS e su altre piattaforme (Commodore, Sinclair, etc.).
E se anche inseriste nel vostro ciclo di vita di gestione delle informazioni anche la preservazione del software necessario, il giorno che vi occorresse, sareste ancora in grado di utilizzarlo?
Potrebbe essere definitivamente scaduta la licenza d’uso, o non essere più supportato dall’ultima versione del sistema operativo che avete adottato a livello aziendale …
Senza voler fare dell’allarmismo, già oggi esistono parecchie criticità nell’utilizizare all’interno di WIndows 7 applicativi scritti per versioni precedenti di Windows e del DOS – vedi il workaround del XPmode).
Windows 8.1 prevede l’utilizzo del DRM: il che significa che Microsoft avrà il controllo sul software che utilizzerete; a fronte di una licenza scaduta, il produttore del software potrebbe impedire l’esecuzione del programma, o addirittura forzarne la disinstallazione.
In sostanza, garantire la leggibilità di un documento potrà divenire potenzialmente impossibile.
Ovviamente esistono anche gli standard aperti ed il software libero, ma queste sono scelte strategiche che in pochi sono in grado di affrontare.
A proposito …
visto che per poter rendere ‘leggibile’ un documento possono essere necessari dell’hardware obsoleto ed anche una o più licenze di software anch’essi potenzialmente obsoleti, in caso di giudizio quale delle parti ha l’onere di fornire la piattaforma per poter presentare il documento?
Ed il giudice stesso, volendo consultare gli atti del processo può avere necessità di fare accesso al documento stesso; anche nell’ottica della dematerializzazione deve andare da una delle parti e farsi stampare tutto?
O si fa mettere a disposizione una copia del sistema informatico necessario per poter leggere il documento?
… forse manca una strategia per la formazione a livello nazionale … domenica 2 febbraio 2014
Posted by andy in Information Security, Internet e società, Politica.Tags: didattica, educazione civica, Etica, formazione, Programma Politico, scuola, strategia
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È di pochi giorni fa la notizia che per il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza “A scuola non serve insegnare il digitale”.
In sostanza, la sua visione del futuro digitale dei giovani è che debbano imparare a muoversi con sicurezza in Rete perché a scuola utilizzeranno il computer per studiare sui nuovi libri digitali.
Il fatto che la sicurezza in Rete sia un problema di tutti i cittadini non risolve il problema di come si potrà educare un’intera popolazione, composta di generazioni con culture informatiche differenti (spesso inesistenti).
Il ministro non fa i conti con il fatto che tra una decina d’anni i ragazzi che oggi stanno finendo le medie già si occuperanno di politica, e che tra una dozzina d’anni saranno già responsabili della sicurezza delle informazioni che gestiranno nell’ambito della Pubblica Amministrazione e di aziende che, tramite l’innovazione, dovranno trainare l’economia del Paese.
Il problema non è tanto l’introruzione di ore specifiche di insegnamento, ma quello dei contenuti da insegnare: l’idea di insegnare l’Etica in Rete all’interno delle ore di Educazione Civica non è sbagliata, ma non può prescindere dalle tecnologie utilizzate (la crittografia, tanto per indicarne una), e non può prescindere dal fornire adeguate competenze ai docenti.
E l’altro aspetto che sembra sfuggire è che, mentre la stampa ha semplicemente accelerato e democratizzato l’accesso all’informazione per tutta la popolazione, oggi è la popolazione che crea e pubblica informazione: si è in sostanza reso bidirezionale (o meglio, multidirezionale) il flusso delle informazioni.
Politici ricattabili, e persone che si faranno ‘sfilare’ da sotto il naso informazioni aziendali riservate non contribuiranno certamente ad una crescita politica ed economica del Paese.
Perché è importante la pervasiva raccolta di informazioni giovedì 24 ottobre 2013
Posted by andy in Information Security, privacy.Tags: Airbus, Boeing, NSA, pervasività della raccolta informativa, spionaggio
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Lo scandalo Datagate ha svelato fino a che punto sia giunta la pervasività della raccolta delle informazioni svolta dalla NSA (e presumibilmente anche da parte di molte altre agenzie pubbliche e private).
Spesso mi sento chiedere a che titolo qualcuno potrebbe voler intercettare le comunicazioni anche del più ‘insignificante’ dei cittadini: che interesse potrebbero avere gli americani (o chiunque altro) a sapere con chi parlo, a chi scrivo, dove vado …?
Il problema nella raccolta delle informazioni è che il loro valore è tanto maggiore quanto è più completa.
Le reti di relazioni, le sequenze degli eventi e delle comunicazioni (senza contare i loro contenuti) sono fondamentali.
Faccio un paio di esempi banali, tanto per dare un’idea.
Se Paperino telefona a Pippo (entrambe persone integerrime), e questi parlano di fare un regalo al Commissario Basettoni, non si evidenzia niente degno di nota.
Ma se la mia raccolta di informazioni mi porta ad intercettare anche le telefonate tra Pippo e Gambadilegno (noto o potenziale terrorista), allora l’interpretazione che si può dare ai discorsi tra i primi due cambia molto, così come la valutazione sulla loro integrità.
Altro esempio: intercetto tutte le e-mail tra due persone, ma non le telefonate (è un esempio: potrebbe trattarsi di ‘pizzini’).
Il Commissario Basettoni scrive a Topolino una mail in cui afferma di non avere intenzione di mettere Gambadilegno in prigione (o di non voler muovere guerra contro Paperopoli).
Tuttavia gli aveva preventivamente telefonato avvisandolo di interpretare al contrario ogni sua affermazione via e-mail.
Come vedi soltanto se hai un quadro completo delle relazioni e delle comunicazioni puoi comprendere veramente ciò che sta accadendo.
Per non parlare poi del furto della proprietà intellettuale, delle informazioni commerciali strategiche, dello spionaggio industriale (vi ricorda nulla la vicenda Boing vs. Airbus …?).
Intercettazioni: e ancora ci stupiamo? giovedì 24 ottobre 2013
Posted by andy in Information Security, Internet e società, privacy.Tags: British Telecom, Echelon, NSA, scandalo intercerttazioni, Servizi Segreti, Snowden, Telecom
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Datagate: anche il governo italiano è spiato.
È da anni che sappiamo di Echelon.
Il nostro stato (leggi DigitPA, ex CNIPA), invece che lavarsi i panni sporchi in casa (leggi: Telecom), appalta tutto fuori, e casualmente a chi? a BT (British Telecom), che è pappa e ciccia con gli USA nei programmi di spionaggio.
In particolare oltre che ad assegnargli l’appalto nazionale per la RUPA (Rete Unitaria della Pubblica Amministrazione, ora SPC – Sistema Pubblico di Connettività e Cooperazione) gli abbiamo appaltato anche quella internazionale (RIPA – Rete Internazionale della Pubblica Amministrazione).
E ci stupiamo ancora che all’estero qualcuno controlli le nostre comunicazioni …?
È nata prima la policy di sicurezza o il workaround? lunedì 2 aprile 2012
Posted by andy in Information Security.Tags: policy, sicurezza, workaround
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Oggi mi stava venendo da ridere; molto probabilmente non vi racconterò nulla di nuovo, ma è interessante per scattare l’ennesima fotografia dei problemi che un responsabile della sicurezza delle informazioni si trova a dover affrontare quotidianamente.
Non faccio il nome della società di cui vi parlo, sia perché si dice il peccato e non il peccatore, sia perché sarebbe irrilevante ai fini del discorso; vi basti sapere che è una società di rilevanza mondiale, e direi una delle due top nel proprio settore.
Stiamo parlando di una società con policy di sicurezza così ben fatte e così ben applicate che risulta praticamente impossibile lavorare (almeno per una mentalità snella e libera come può essere quella italiana).
Tra le policy, ovviamente, l’impossibilità di utilizzare dispositivi USB, il divieto (e l’impossibilità) di collegare alla rete aziendale qualsiasi dispositivo non aziendale e non autorizzato.
Situazione: riunione tra partners per la redazione e finalizzazione di un’offerta (ovviamente, molto corposa).
La riunione si tiene praticamente nell’equivalente di un bunker, completamente schermato dalle radiofrequenze, e quindi senza la disponibilità della telefonia mobile.
È uno di quei momenti topici in cui tutti devono scambiarsi documenti, aggiornamenti, revisioni, correzioni …
Come fare? Impossibile passarsi i documenti via USB, né via rete locale (gli ospiti non possono collegarsi alla rete).
Gli ospiti non possono neppure trasferire i propri file veicolandoli attraverso la rete mobile, per mancanza di copertura.
Etc. etc. etc.
Le soluzioni adottate sono state sostanzialmente due:
- utilizzo di un hard disk volante (forse non avete ben inteso: non un hard disk USB, bensì uno smontato da un PC del cliente, inserito in un PC dell’ospite, caricato di documenti, e ritrasferito nel suo computer originale);
- invio dei documenti (ovviamente altamente riservati) utilizzando caselle di posta personali (GMail) dei vari interlocutori;
Per fortuna il responsabile della security non ne sa nulla, altrimenti rischierebbe di perdere il sonno (e forse non solo quello!) …