Quanto è affidabile la catena di assicurazione della Qualità? lunedì 27 aprile 2020
Posted by andy in Etica, Miglioramento, qualità.Tags: ACCREDIA, audit, certificazione, EA, Etica, European Accreditation, Garante Privacy, ISO9001, Non conformità
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Vi racconto un fatto realmente accadutomi:
ormai parecchio tempo fa, ho inviato alcuni quesiti ad un’importante azienda pubblica di Milano, che per non fare nomi identificherò con A (tutti quesiti ragionevoli e leciti, di cui uno riguardava il trattamento dei miei dati personali) attraverso il suo portale di attenzione al cliente.
Non ho ricevuto risposte entro i tempi dichiarati sul sito, e nonostante molteplici solleciti attraverso vari canali, l’azienda ha continuato a negarmi le risposte dovute.
Ho quindi coinvolto l’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, che ha intimato all’azienda di rispondermi, cosa che è stata fatta (limitatamente al quesito sui dati personali) a pochi giorni dallo scadere dei termini per un procedimento penale.
Ho quindi scritto alla società che ha certificato A rispetto alla norma ISO9001 (anche per i servizi di attenzione al cliente) l’azienda in oggetto (identificherò questa con C).
Tale società non mi ha dato riscontro per quasi un anno, e mi ha risposto soltanto dopo una raccomandata a mano al direttore generale, asserendo di essersi persa la mia comunicazione durante una transizione di sistemi informativi (evidentemente devono essersi persi soltanto la mia, altrimenti l’azienda si sarebbe fermata completamente!).
Insistendo, e dopo approfondimenti vari, la società di certificazione C ha inserito dei controlli nella successiva visita di mantenimento della certificazione di A; tuttavia ha pensato bene di includere soltanto i controlli sul reclamo al Garante, e non quelli relativi agli altri quesiti che avevo posto ad A.
In seguito a ciò, C ha affermato di non aver riscontrato problemi nei processi di attenzione al cliente di A (inspiegabilmente, visto che i miei quesiti rimanevano ancora senza risposta!).
Chiaramente insoddisfatto, ho segnalato e documentato tutta la vicenda ad ACCREDIA, chiedendo che venissero effettuate verifiche nella società C sulle modalità di pianificazione degli audit.
Dopo lungo tempo ACCREDIA ha risposto di aver effettuato una visita documentale presso la società C, e di non aver riscontrato anomalie.
Ovviamente insoddisfatto dei controlli effettuati da ACCREDIA, ho inoltrato tutto l’accaduto ad EA (European Accreditation), che dopo lunga attesa mi ha risposto che non era cosa di sua competenza.
Dopo che ho fatto notare ad EA che la sua mission prevede anche di vigilare sull’etica e sul corretto operato dei membri accreditati, EA ha lasciato cadere ogni ulteriore comunicazione.
In sintesi, nonostante tutta la documentazione e le evidenze fornite:
- un’importante azienda certificata ISO9001 non ha rispettato i propri impegni di certificazione, arrivando anche a violare la legge;
- la società che ne certifica la conformità ha violato i propri obblighi di due diligence (presumibilmente in relazione all’importanza del cliente coinvolto, per non essere costretta a sospendere o revocare la certificazione di cui era garante);
- ACCREDIA ha violato i propri obblighi di due diligence nel verificare il comportamento della società di certificazione (probabilmente per non essere costretta a mettere in discussione il suo accreditamento);
- EA ha violato gli obblighi derivanti dalla propria mission, non assicurando la competenza, imparzialità ed integrità di ACCREDIA.
In conclusione, visto che tutti e quattro i livelli di assicurazione della qualità hanno fallito, quanto oggi si può ritenere affidabile e degna di credibilità una qualsiasi certificazione?
Abbiamo evidenza che almeno quattro persone, titolari o amministratori delegati di importanti aziende ed organizzazioni, sono hanno impostato la gestione del business delle rispettive organizzazioni in modo da privilegiandone l’immagine ed il ritorno economico, venendo meno ai propri obblighi etici.
Occorre infine ricordare che lo stipendio di tali persone è, in ultima analisi, pagato dall’utente finale (in questo caso, anche da me); infatti quando l’utente finale paga il prezzo per il servizio atteso, a sua insaputa corrisponde anche una quota per la gestione della qualità, e quindi delle certificazioni, dei servizi delle società di certificazione, e quindi risalendo anche delle quote di associazione che queste devono corrispondere ad ACCREDIA, e questa ad EA.
In sintesi, ho pagato per due servizi che non ho ricevuto: l’assistenza al cliente, e l’assicurazione della qualità di tale servizio, che è venuta a mancare.
Una farfalla batte le ali in Australia e si scatena un tornado in America … venerdì 3 aprile 2020
Posted by andy in Etica.Tags: Cina, Coronavirus, COVID-19, decessi, Etica, letalità, mortalità, nCOVID-19, Wuhan
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Trasposto al giorno d’oggi, si potrebbe dire che una persona viene morsa da un pipistrello in Cina ed ogni paese, anche dall’altra parte del pianeta, piange migliaia di morti.
Occultare l’informazione, fare disinformazione e controinformazione … armi di distrazione di massa, come le chiamano alcuni …
Ah, già! Naturalmente ci sono anche le fake news …
Cose vecchie come il mondo, e quindi non è facile credere ciecamente a tutto ciò che ci viene detto, e pertanto non cercherò di proporre come certamente vero tutto ciò che riporterò e dirò di seguito.
Tuttavia molte cose possono far sorgere dei dubbi sui dati forniti dalla Cina.
Possiamo certamente tenere in conto che l’aspettativa di vita in Cina è di circa 6 anni inferiore a quella in Italia.
Viene da chiedersi se un dispiegamento di forze come quello qui riportato sia giustificato, considerando che la Cina è stata in grado (o almeno così afferma) di imporre una totale quarantena di tutta la popolazione, con controlli capillari e più che quotidiani, porta a porta, della temperatura e dello stato di salute delle persone.
C’è naturalmente il gioco delle parti, con reciproche accuse, come la Cina che accusa gli USA di aver seminato il panico, e gli USA che affermano con un rapporto della CIA che i dati forniti dalla Cina sono deliberatamente inattendibili.
Ad oggi la Cina ha dichiarato un numero di casi pari ai due terzi di quelli italiani (81.000 contro i nostri 112.000), ma soltanto un quarto dei morti (3.330 contro 14.000).
I dati tuttavia possono essere straordinariamente diversi, come riportato da questo leak riportato dal Taiwan News, che il 5 Febbraio riporta oltre 24000 decessi soltanto a Wuhan.
Ora, il calcolo della letalità di un agente patogeno non è semplice, e di norma occorrerebbe attendere la fine dell’epidemia (anzi, in questo caso, della pandemia).
Un modo per barare è anche quello di cambiare le carte in tavola a partita già iniziata, come ha fatto la Cina rivedendo la propria definizione di chi è da considerarsi positivo al Covid-19.
Il sospetto si sta diffondendo, e si moltiplicano gli articoli che affrontano il tema (anche qui); c’è anche chi si chiede come sia possibile perdere 21 milioni di utenze telefoniche in brevissimo tempo …
Certo molte potevano essere utenze business, e non potendo più viaggiare e spostarsi, sono diventate inutili; molti magari si sono accontentati della propria SIM personale, rinunciando ad una seconda utenza …
È importante ricordare che la Cina ha deliberatamente ignorato e spazzato sotto al tappeto l’allarme lanciato dal medico Li Wenliang, che è stato minacciato dal suo stesso Stato e costretto a ritrattare le importantissime informazioni divulgate.
Per diletto, mi ha punto vaghezza la curiosità di vedere quale relazione sussista tra il numero di decessi ed il numero di persone guarite.
Dato che il virus è democratico (in realtà abbastanza democratico: predilige gli uomini – ~70% alle donne – ~30%), non dovrebbe conoscere preferenze tra italiani, spagnoli, tedeschi, inglesi e cinesi …
Tuttavia ciò che emerge da un semplice grafico è a dir poco sorprendente:
osservando il grafico ottenuto con i dati di oggi, considerando i 22 paesi con il maggior numero di casi, si nota come vi sia una relazione stretta tra decessi e guarigioni.
Il punto più a destra è relativo all’Italia (il paese che ha dichiarato il maggior numero di morti).
L’unico punto anomalo è quello relativo alla Cina, che si posiziona con un bassissimo numero di decessi ed un altissimo numero di guarigioni.
Come si può spiegare ciò?
Considerando i dati riportati da Worldometers alla data del leak riportato dal Taiwan News, ed ipotizzando uguale la sua letalità in ogni paese (è stato verificato che il ceppo cinese del virus non è diverso da quello italiano), emergono dei numeri sconcertanti (da prendere con ampio beneficio d’inventario: i conti fatti sono veramente semplici e non tengono conto della pletora di fattori che potrebbero condizionarne i risultati).
Considerando come letalità il numero di decessi rispetto al totale dei casi chiusi (includendo quindi anche i guariti), alla data indicata la mortalità in Cina era del 4.21%.
Tuttavia a quella data la mortalità nel resto del mondo (calcolata quindi escludendo i numeri della Cina) era del 29.2%.
Se questa mortalità reale è stata tale anche a Wuhan, a quella data i morti non dovevano essere i 304 dichiarati, ma circa 270.000 …
… e stiamo parlando soltanto di Wuhan, una città di 6 milioni e mezzo di abitanti in un paese di quasi un miliardo e mezzo di persone …
E sin qui ci siamo occupati di ragionare su alcune informazioni raccolte.
Certo, ad oggi i morti ufficiali sono circa 53.000, ma occorre tenere conto del fatto che non abbiamo numeri dall’Africa, dall’India e dalla Russia (oltre ai numeri della Cina, che appaiono pesantemente ‘taroccati’), ed il fatto che molti paesi hanno regole per contare i casi positivi molto ‘restrittive’, e quindi di fatto non rappresentative della realtà.
Dedico le ultime righe ad una considerazione: quanta etica ha un paese che per nascondere un tale problema e non mettere a rischio la propria produzione e la propria finanza è disposto a causare una pandemia e milioni di morti in tutto il mondo?
Cosa vede l’eremita durante il periodo del nCOVID-19 sabato 28 marzo 2020
Posted by andy in Etica, pensieri.Tags: Coronavirus, COVID-19, nCOVID-19
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Anche ENISA affronta il complesso tema dell’oblio digitale giovedì 22 novembre 2012
Posted by andy in Etica, Internet e società.Tags: diritto all'oblio, ENISA
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Anche l’ENISA (European Network and Information Security Agency) ha avviato il dibattito sulla spinosa questione del diritto all’oblio in Europa.
Il tema viene ricondotto al concetto di ‘scadenza dei dati’. Ovviamente si parla di dati personali, e non di dati qualunque.
Provo a trasporre la questione nel mondo concoreto: il latte scade; lo si capisce perché con il tempo cambia la sua natura, e se lo beviamo, stiamo male.
Vorrei definire questo approccio come ‘passivo’; un approccio attivo lo avrei se cercassi di far bere a qualcuno del latte scaduto, o almeno lo commercializzassi (falsificando la data di scadenza sulla confezione).
Ed ora veniamo ai dati: quando consultare un dato può farmi male (approccio passivo)? È difficile immaginare una situazione in cui si possa venire inconsapevolmente a contatto con informazioni personali che possano ‘farci male’.
È invece vero che posso fare del male a qualcuno divulgando un’informazione, soprattutto se decontestualizzata; in pratica posso incorrere (tra l’altro) nel reato di diffamazione.
E mi viene da chiedermi: il ‘dato’ relativo al fatto che la signora XY ha ucciso dei bambini, quando scade? È corretto far sparire questa informazione, tenendo conto che questa signora potrebbe offrirsi come baby sitter per i miei figli?
È vero che si può obliare sull’informazione che il sig. XYZ ha rubato una mela in gioventù, se non ha poi commesso più reati per il resto della sua vita.
Ma se invece ha proseguito a rubare mele (o altro) in seguito? Del primo potrei fidarmi, ma del secondo?
In sostanza, quanto vi fidereste voi di persone che non hanno storia, o di cui comunque vi resta il dubbio che le informazioni che potere trovare in rete siano solo parziali, filtrate e censurate?
E non sarebbe una grave discriminazione il fatto che persone che non hanno commesso reati abbiano il diritto di avere in Rete una immagine completa di sé stessi, mentre altre debbano convivere con dei ‘buchi mnemonici’ della Rete?
Un estremista può essere orgoglioso dei propri trascorsi da contestatore: a che titolo qualcuno può privarlo della sua storia in Rete?
È vero che si parla del diritto della persona di richiedere l’oblio per particolari informazioni, e non di un obbligo di legge di applicare un’etichetta con la scadenza di ogni informazione in Rete.
È fondamentale ricordarsi che al diritto di qualcuno, corrisponde sempre il dovere di qualcun altro.
E lo devono fare indipendentemente da problemi tecnici ed economici.
Rimuovere un dato non significa semplicemente cassare una voce da un indice: significa invece andare anche a rimuoverne ogni copia conservata su sistemi mirror, su backup, andando a riaprire database, rimuovendo record, ricostruendo backup, e distruggendo i vecchi supporti, etc. etc. etc.
Insomma, è importantissimo identificare, riconoscere e formalizzare diritti inalienabili, ma occorre anche chiedersi se la cosa sia fattibile oppure no.
Anche perché andiamo anche a limitare la libertà di informazione ed al diritti di informazione riconosciuti costituzionalmente.
Il tema è talmente nuovo e complesso che porta ad avere tanti pareri, spesso molto discordanti, e problemi tecnici e legislativi ancora impensabili ed inesplorati da affrontare.
Insomma, è un ottimo spunto di discussione ed approfondimento
Diritto all’oblio – prima e, soprattutto, dopo martedì 5 giugno 2012
Posted by andy in Etica, Internet e società.Tags: diritto all'oblio, eredità dei dati del defunto, privacy dopo la morte
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Sul diritto all’oblio si è detto molto, e la questione è ancora aperta.
Volendo riassumere in poche parole, si disquisisce sul fatto che sia corretto o meno, e se sia un diritto o meno, il consentire di rimuovere da Internet, in modo irreversibile, informazioni sulle persone che i proprietari ritengono lesive della propria immagine, dopo un ragionevole periodo di tempo.
In effetti, Internet può trasformarsi in una ‘fedina penale’ che non può, ad oggi, essere ripulita nonostante si sia scontata qualsiasi pena.
Ma questo vale per i vivi e per la loro reputazione digitale.
Ma dopo la morte? Il diritto all’oblio resta un diritto del defunto?
Pongo quindi la seguente questione: le informazioni pubblicate da una persona possono essere ereditate al momento della sua morte?
Se nelle mie ultime volontà disponessi la rimozione di tutti i contenuti che mi riguardano, questso diritto dovrebbe essere applicato anche dai miei posteri, anche contro la loro volontà, contro il diritto di cronaca, contro il diritto alla memoria degli altri?
In sostanza, il mio io digitale deve morire con me, o può essere reclamato (ed anche posseduto) dai miei eredi?
Ed in questo caso, i miei eredi possono reclamare le mie password per accedere ai miei contenuti ancora non divulgati (OK, questa è un’altra questione: si tratta di decidere se considerare o meno i miei contenuti in rete, anche se protetti, come un valore ereditabile, alla stregua di un manoscritto inedito).
Richiedere (o forzare) le mie password dopo la mia morte dovrebbe essere considerato come una violazione della mia privacy? E di conseguenza, viene da chiedersi: un morto ha diritto alla privacy tanto e quanto i vivi?
Il valore della compromissione degli account lunedì 19 dicembre 2011
Posted by andy in Etica, Information Security, Internet e società.Tags: compromissione, responsabilizzazione, superficialità, vulnerabilità
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Ho recentemente letto la notizia relativa ad un attacco al Ministero per la Pubblica Amministrazione ed Innovazione.
Su pastebin potete trovare l’elenco degli account compromessi.
Indipendentemente dalle considerazioni che si possono fare sulla competenza e sulla serietà nella gestione della sicurezza del sito (per l’attacco è stata utilizzata una semplice SQL Injection), viene comunque spontaneo chiedersi quale sia il danno conseguente.
Uno dei problemi più complessi nella valutazione dei rischi è proprio la valutazione del danno indiretto.
Ciò nondimeno, è intuitivo e certo che un danno ci sia: pur non provando a quantificarlo, possiamo come minimo considerare:
- la perdita di immagine,
- il costo per eliminare le vulnerabilità sfruttate,
- il costo per ogni utente per cambiare la propria password,
- l’eventuale sfruttamento dei profili compromessi.
Sarebbe quindi davvero interessante riuscire a fare una valutazione del danno economico (anche spannometrico) derivante dalla perdita di un account, e richiedere l’addebito sullo stipendio dei responsabili degli equivalenti importi.
Tutto sommato chi gestisce in modo incompetente la sicurezza dei sistemi della PA procura un danno economico e di immagine allo stato, e quindi ai cittadini.
Come ‘incentivo’ a gestire le cose in modo un po’ più serio potrebbe essere interessante ipotizzare anche il semplice addebitare un importo simbolico (10€ per account compromesso possono andare bene?), ciascuno moltiplicato per il suo ‘peso’ (ovverosia per il livello gerarchico nella PA – che in qualche modo rende proporzionale il rischio) ai responsabili ed agli amministratori di sistema.
Idea per un motore di ricerca Etico giovedì 25 agosto 2011
Posted by andy in Etica, Information Security, Internet e società, tecnologia.Tags: identificazione degli utenti, motori di ricerca, profilazione, search engine, tracciabilità
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Leggo oggi una (nuova) notizia sul tracciamento pervasivo che i motori di ricerca fanno della nostra navigazione in Rete (Lo scandalo “supercookies”
Utenti pedinati senza saperlo).
Microsoft ha appena fatto ‘marcia indietro’, ma il problema è stato solo rimandato: saranno già alla ricerca di nuovi modi per fare la medesima cosa.
Dovrei scandalizzarmi? Assolutamente no: l’intero business dei motori di ricerca si basa proprio sulla raccolta sempre più precisa di informazioni sul profilo degli utenti da rivendere (come minimo) per scopi di advertising (non voglio addentrarmi sugli interessi che esistono per tali informazioni da parte di enti governativi e non).
Il problema è certamente sentito dai cittadini della Rete, che sono alla ricerca di motori di ricerca non traccianti (provate a fare una ricerca di ‘non tracking search engine‘ per farvi un’idea …); qui trovate una ‘Top 5’ di motori di ricerca anonimi.
Ma se leggete bene i commenti in Rete, i netizen non si fidano, ed a ragione: di fatto, cosa cambia utilizzando un motore di ricerca diverso da quelli tradizionali? Semplicemente che i propri dati finiscono in mano ad altri (ed in ogni caso sarebbe interessante scoprire chi realmente c’è dietro ad ogni motore di ricerca).
Faccio un paio di semplici considerazioni:
- i motori di ricerca costano, e tanto: lo storage, la banda per la connettività, la corrente, la manutenzione dei data center e lo sviluppo e la manutenzione del software hanno un costo (per non parlare del supporto da fornire agli enti governativi per l’estrazione di dati e per la rimozione di contenuti vietati);
- visto che i comuni motori ricerca non chiedono soldi, chi è così disinteressato da investire centinaia di milioni o addirittura miliardi senza una prospettiva di rientro (e possibilmente di utile)?
NOTA: ci tengo a fare una precisazione prima che intervenga qualche ‘misunderstanding’ (o cielo! … sto diventando anglofono? Avrei anche potuto utilizzare il termine ”incomprensione’ …!): il fatto che un motore di ricerca sia ‘anonimo’ non significa che non raccolga ed analizzi dati; l’importante è capire quali dati possono essere raccolti e quali no; sostanzialmente non devono essere raccolti dati che consentano la profilazione del singolo utente; un metro che utilizzi qualsiasi dato che consenta di capire quali siano le ricerche più ‘gettonate’ e da quale paese vengano, le fasce orarie di utilizzo, etc. può essere utilizzato senza mettere a rischio la privacy delle persone.
Ciò detto, proviamo a chiederci quali siano i requisiti minimi che un motore di ricerca deve soddisfare per poter realmente non aver bisogno di profilare gli utenti per sostentarsi:
- deve essere finanziariamente autonomo;
- deve poter dimostrare che nel proprio codice non sono implementate regole di profilazione.
Vediamo ora come sia possibile pensare di soddisfare tali requisiti:
- autonomia finanziaria:
- un contributo (simbolico) di 1 Euro all’anno, per 1 miliardo di utenti, sono 1 miliardo di Euro, che consentono il sostentamento di una struttura più che ragguardevole .. (questo implica ovviamente che gli utenti devono essere registrati);
- riduzione o eliminazione del contributo per coloro che non si vogliono registrare, per i quali verrà effettuata una limitata e ragionevole, e soprattutto dichiarata, profilazione; i dati così raccolti potranno essere utilizzati per finanziarsi anche con entrate per pubblicità mirata;
- entrate derivanti dalla rivendita di analisi dei dati raccolti (per scopi di studio o commerciali);
- eventuale licensing del codice del motore di ricerca, per la realizzazione di motori proprietari;
- probabilmente si
- trasparenza per dimostrare che non viene effettuata la profilazione degli utenti:
- apertura del codice (Open Source – che non significa necessariamente ‘gratuito e liberamente copiabile’);
- verifiche indipendenti di parte terza sul rispetto della policy sulla privacy (forse potrebbe starci anche una certificazione ISO27001 …)
L’inizio della fine martedì 24 agosto 2010
Posted by andy in Etica, Internet e società, Libertà dell'informazione.Tags: diritti umani, diritti universali, Foxconn, globaliizzazione, tempi che cambiano
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Dopo il Giappone, anche la Cina manifesta i sintomi della incipiente globalizzazione.
Se per gli occidentali la globalizzazione ha significato poter produrre a condizioni sempre più vantaggiose trasferendo la produzione in paesi più poveri (India, Corea, e poi la Cina), essa invece significherà per questi paesi la necessità di adeguarsi agli standard occidentali.
Millenni di storia, ma soprattutto gli ultimi decenni, hanno dato un incredibile impulso alla definizione di regole, norme e standard finalizzati a garantire la qualità della vita e la salute dell’ambiente, come inevitabile conseguenza della ratificazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Il moderno schiavismo non ha retto la viralità della crescente libertà di informazione, anche in un paese come la Cina, ove il recente caso Foxconn ha portato all’attenzione della pubblica opinione occidentale il fatto che l’Etica dietro cui commercialmente ci nascondiamo non ci può consentire di utilizzare due pesi e due misure, a seconda che il lavoratore sia entro o fuori dai confini nazionali.
Pur avendo cercato di evitare il problema fino all’ultimo, una volta messa di fronte all’evidenza dei fatti la Apple non ha potuto esimersi dal rinegoziare le condizioni per la produzione dei propri dispositivi ed i relativi costi.
La conseguenza immediata è un miglioramento, per quanto esiguo, delle condizioni di lavoro alla Foxconn, ma soprattutto la presa di coscienza dei lavoratori di avere dei diritti e di poterli far valere, nonostante un sindacato di stato in evidente conflitto di interesse tra le parti.
Ci vorranno decenni, ma accadrà in Cina e negli altri paesi asiatici ciò che è accaduto in Giappone.
Tuttavia l’immensa popolazione di quei paesi creerà condizioni estremamente critiche sia a livello economico che politico, quando lo stato si troverà a dover garantire a miliardi di persone le condizioni minime acquisite da pochi milioni di lavoratori.
Libertà dell’Informazione e Qualità dell’Informazione venerdì 10 luglio 2009
Posted by andy in Etica, Internet e società.Tags: informazione libera, plagio, wikipedia
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Chris Anderson, il caporedattore di Wired, è stato accusato di plagio nel suo nuovo libro, ancora inedito, “Free: The Future of a Radical Price”.
Ma la cosa ridicola è che il plagio riguarda contenuti di Wikipedia, contenuti liberi.
In effetti sono state trovate importanti analogie tra elementi del suo libro e testi presenti sull’enciclopedia libera.
Da questa vicenda credo che si possa evincere un’interessante osservazione.
A parte quella (banale) che Internet non offre nascondigli, quella più interessante è che per il futuro potremo attenderci una crescita della qualità dei lavori pubblicati.
Opere che nulla aggiungono all’esistente, o che addirittura sono assemblate a suon di ‘copia e incolla’ non solo avranno sempre meno lettori, ma addirittura potranno rovinare l’immagine di un autore.
In questo senso la gente starà ben più attenta a citare le fonti, e soprattutto ad aggiungere dei contenuti che portino dell’innovazione ai testi utilizzati o citati.
Copyright e Diritti venerdì 10 luglio 2009
Posted by andy in Etica, Internet e società.Tags: brevetti, condivisione, copyright, diritto d'autore
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Il processo a The Pirate Bay ha (ri)portato alla ribalta la questione del conflitto tra condivisione di contenuti coperti da copyright ed applicazione delle leggi sul diritto d’autore.
Qualcuno in Rete ha affermato che il diritto d’autore (e più in generale si può estendere il concetto anche ai brevetti) è un Diritto, e che chi non si assoggetta alle leggi sul copyright infrange un diritto di qualcun altro.
Il reale punto del contendere però non è sul Diritto (la teoria), ma sulla legge (la pratica).
Il titanico conflitto che si è andato creando in questi anni tra l’industria e gli utenti non è sul copyright, ma sulle leggi che ne regolano l’applicazione.
Avrete sicuramente notato che tutte le pricipali contestazioni di questi anni non riguardano i brevetti su come produrre motori d’automobile, prodotti chimici o nuove confezioni per polli arrosto; i problemi ormai vertono principalmente sui brevetti sul software e sulla gestione del diritto d’autore.
Ritengo che le principali differenze tra i due contesti siano queste:
1) nel primo caso, l’idea serve a produrre un bene fisico, che è quello che porta il provento, mentre nel secondo caso ciò che viene venduta è, in sostanza, l’idea stessa;
2) il costo per la riproduzione del bene è irrisorio rispetto a quello per la sua realizzazione;
3) nel primo caso, i diritti sull’utilizzo del bene vengono di fatto ceduti e non vengono controllati (nessun produttore di automobili si permette di controllare se rispetto il codice della strada, né si permette di vietarmi di prestare la mia automobile ad un amico); nel secondo caso invece mi viene vietata la libera fruizione del bene (vedi anche DRM).
Il tutto non avrebbe creato problemi rilevanti se le parti coinvolte avessero avuto una ragionevole ripartizione tra costi e vantaggi.
Purtroppo Internet si è interposta tra le parti, riducendo i costi per i produttori, spostando costi sugli utenti finali, e non riproporzionando alla facilità di distribuzione il costo del prodotto finale e gli utili per i detentori dei diritti.
Il conflitto non è semplicemente tra i produttori e gli utenti finali, come si vorrebbe far credere, ma tra i produttori da una parte e gli utenti finali e i detentori dei diritti dall’altra.
I produttori vengono da un mercato basato sui monopòli di fatto, e si stanno scontrando contro un modello di business che li rende di fatto non più indispensabili.
Una parola va spesa sui brevetti sul software, che sono ormai fuori controllo: consentendo la brevettabilità delle idee anche più banali, ormai qualsiasi cosa venga prodotta, per quanto innovativa, sicuramente senza rendersene conto utilizza qualche idea già brevettata da qualcun altro.
La soluzione del problema sta pertanto non nella repressione che, come dimostra la storia, non può fermare il corso della stessa, ma soltanto rallentarlo, ma nell’aggiornare le leggi armonizzandole con la nuova realtà.
Ormai la globalizzazione impone di affrontare tutti i nuovi problemi in modo, appunto, globale, e di identificare i principi universali che possano essere riconosciuti come base del diritto su base internazionale.
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Vorrei dire che non ho nulla contro l’idea dei brevetti, ma in realtà un pensiero mi è venuto poco fa (ma lo esprimo in coda a questo post).
Il problema del giorno d’oggi è che i prodotti intimamente legati alla gestione digitale (e parlo quindi sostanzialmente di software, testi ed audio/video) hanno un costo di produzione che ormai tende a zero (ho detto ‘produzione’ e non ‘progettazione’).
L’esempio che hai fatto della Ferrari esula da questo concetto, in quanto la produzione di un veicolo clonato non può venire a costo zero (materie prime e manodopera hanno un costo reale, così come la catena di distribuzione, vendita ed assistenza).
Internet ha n-uplicato il mercato di pochi anni fa, ma i prezzi dei contenuti sono rimasti pressoché uguali, nonostante le incredibili economie di scala, la grande riduzione dei costi di produzione (stampa di testi e supporti), ed il trasferimento di parte dei costi sugli utenti (la banda per scaricare i contenuti, così come il supporto su cui lo salvo, e l’iniquo equo compenso, il packaging, il magazzino che non esiste più, etc.).
Sostanzialmente oggi tutti vorrebbero che comperassimo di più (pensa alla quantità di titoli disponibili), dimenticandosi che non possiamo comperare tutto ciò che ci vogliono vendere con gli stessi soldi che guadagnavamo anche pochi anni fa.
A peggiorare la situazione c’è il mancato riscontro agli autori, che in generale non riescono a rientrare neanche dei costi della quota di associazione alla SIAE di turno.
La qualità si paga: chi più spende meno spende, si diceva un tempo …
La borsetta griffata comperata in spiaggia dura una stagione (se va bene); l’originale ti dura una vita.
E che dire della Ferrari tarocca? Ti fideresti tu ad andare in giro a 300 all’ora con dei freni fatti al risparmio? È una tua scelta.
Il tutto comunque, insisto, va letto in un contesto più generale, in cui si sono completamente sbilanciati i rapporti tra gli intermediari ed i produttori ed i consumatori.
Un tempo la casa di produzione musicale sosteneva dei costi notevoli per il talent scouting, per la selezione e per la promozione dei propri autori.
Oggi tutti producono e si propongono a costo zero su Internet, ed il valore dell’intermediazione si è ridotto a girare in economia qualche spot da mettere su MTV.
Senza contare la crisi economica che ha svuotato le tasche dei consumatori, che prima di comperare un disco si preoccupano di mettere qualcosa in tavola.
Ed altrettanto gli autori, che a fine mese guardano quanto hanno ricevuto dalla SIAE, e si chiedono se non avrebbero incassato di più con un bel bottone ‘fai una donazione’ sul proprio sito.
Come la storia insegna, si fa la rivoluzione quando qualcuno ha la pancia vuota e qualcun altro ce l’ha troppo piena.
Chiudo riprendendo il pensiero che ho introdotto all’inizio di questo post.
Immaginiamo questa situazione:
– Continente A: il signor A si scotta togliendo una pentola dal fuoco, ed inventa le presine da cucina;
– Continente B: stessa situazione, con il signor B;
Un bel giorno a casa del signor B arriva qualcuno che pretende di pignorargli anche il pigiama perché ha utilizzato le presine senza aver pagato la licenza d’uso al signor A.
Ah, già … nel frattempo il signor A aveva brevettato le presine da cucina …
Questo esempio serve per evidenziare quanto sia importante stabilire criteri ragionevoli di brevettabilità (cosa che accadrà a breve negli USA).